MANUEL PISTACCHIO "Pellegrino"
(2025 )
Ci vuole un bel coraggio a lasciare il certo per l’incerto, oppure il bello acquisito per l’incognita compositiva, e ciò non può che strappare un doveroso elogio per il trio romagnolo dei Manuel Pistacchio, una ragione sociale che sembra appartenere più ad un progetto solista.
E invece i fondatori Lorenzo e Francesco scelgono, dal 2018, di battezzarsi con un nome che incuriosisce, a prescindere: inoltre, metteteci che a loro non piace elaborare contenuti dozzinali, ed ecco che la proposta si fa decisamente interessante, caratteristica che non sfugge ad autorevoli riviste come Rumore o Rockit che l’investono con buoni riscontri di critica.
E allora, entriamo nel merito del terzo album “Pellegrino” (sèguito di “Primo mattino” e “Scordato cuore”) proprio con le dissolvenze blues della titletrack, in un dolce “errare” verso orizzonti inconsueti, dando gas nella successiva “Solo sete”, per poi placarsi nelle disarmanti radure di “Solo per amore” e “Onda dopo onda”, che muovono un flusso di lodevole estraneità.
Invece il semi-tribalismo di “Parole” è deputato a garantire l’ulteriore sorpresa dell’album, che viaggia sempre e comunque traendo ispirazione dalla raccolta poetica di Arthur Rimbaud (“Illuminations”), che guida il combo riminese verso soluzioni imprevedibili come piace a loro: un cantautorato intrecciato in ricerche sonore pulsanti ed ardenti, che sfociano negli zampilli indie di “Fuochi d’artificio” o nella lunatica ballad di “Amore furibondo”, mentre sul fil di lana di “Ma io corro” echeggiano rimandi alla Battistiana “Il nostro caro angelo”, con una chitarra vellutato ed un sussurro narrante che placa, all’istante, animi frementi in cerca di oasi immaginifiche.
Capito che razza di fantasia orbita nella sinapsi dei Manuel Pistacchio? Cure, premure, ricerche e devianze scritturali che non si (con)fondono con la massa e che librano, indissolubilmente, verso l’ignoto plaudente. (Max Casali)