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PANTA  "Poeti, vampiri & veneri punk"
   (2025 )

C’era una volta qualcosa di bello, altri suoni, altre canzoni, un modo diverso di arrivare al punto, di comunicare, di colpire al cuore, ma è un discorso da nostalgici, e non va mai bene quando è la nostalgia a prevalere, ché è meglio guardare avanti, cercare nuove soluzioni, vivere di sogni finché si può. Però.

Però è anche vero che vedere risorgere dal passato ciò che hai amato e che credevi perduto è sempre una gioia, si tratti di persone, di ricordi, di luoghi, di profumi. O di canzoni, appunto. Ecco, non so se a loro il taglio di queste poche righe farà piacere come a me, ma sono personalmente grato ai Panta - quartetto romano nato nel 2016, qui al ritorno sulla lunga distanza per Goodfellas/Believe con le dieci tracce di “Poeti, Vampiri & Veneri Punk”, titolo che già da solo basterebbe a regalargli fiducia – per questi trentacinque minuti di rievocazione storica in purezza, inzuppati d’Albione a dismisura, vestigia di un brit-pop scintillante e brioso che sopravvive oramai solo in occasionali pillole sparse.

Loro lo fanno in italiano, e centrano tutto: idee, intuizioni, ganci, melodie, ritornelloni. E ritmi, santo cielo: ritmi. E’ musica mossa, mai spinta né aggressiva, ma ipercinetica, santo cielo. Spedita e diretta, non si perde in elucubrazioni cervellotiche o digressioni concettuali: parla la lingua comune della gente comune, va al dunque in pezzi da tre minuti senza scendere a compromessi con mode o tendenze, infischiandosene bellamente dell’ostinato contaminare che a comun danno impera, guardandosi invece alle spalle e reinventandosi, riscrivendo il copione a seconda dell’estro del momento, rileggendo il canone con buon gusto, personalità, fantasia.

Ci avevano già provato, Giulio Pantalei & soci, con il debutto intrigante di “INCUBISOGNI”, datato 2019 e figlio sì di una bella urgenza espressiva, ma forse ancora timido, attendista. Mi era piaciuto, e non mi dispiace nemmeno adesso. Però. Però si percepivano – come dicono quelli bravi - grossi margini di crescita, del tipo: possono dare di più, speriamo bene. Ecco. Il di più è arrivato, cinque anni e passa da allora, ed è un di più che suona così spontaneo, naturale, immediato da lasciar cogliere l’enormità del salto in tutta la sua evidenza.

Registrato tra Roma e Londra, il disco vive di palpitante entusiasmo e si concede giusto sporadiche pause: la cadenza smithsiana – chitarra compresa – di “1990 (Come Sentirsi Vivi)”, il triste ingorgo beatlesiano di “Arcobaleno Elettrico” e la chiusura al rallentatore di “In Inghilterra, Amore”, intrisa di tutto il sentimento possibile e nobilitata da una maestosa coda orchestrale. Il resto è pura energia, convogliata in partiture squadrate ed incisive, coi suoni, le dinamiche e gli arrangiamenti a fungere da corredo ad una scrittura asciutta ed essenziale, frizzante ed energica. Dieci pezzi che non sbagliano un colpo, un accento, una variazione, mettendo in fila una serie infinita di chorus memorabili, offerti agli astanti con disarmante semplicità.

Apre “Finale Di Stagione”, quattro quarti in minore senza preamboli, senza intro, senza fronzoli, già satura dalla prima battuta: il basso è rotondo e pulsante, regge la baracca e sostiene il canto, il resto va da sé, con nonchalance. L’ispirazione non è episodica, la verve che trasmette non flette mai: i tre quarti dei brani sono potenziali singoli, buoni per le radio, per un viaggio in auto, per qualsiasi playlist vi vada di compilare, per esaltarsi come ragazzini cantando a squarciagola davanti allo specchio del bagno un refrain scelto a caso tra i molti disponibili, ad esempio quello à la Niccolò Contessa di “Cristalli Liquidi” o quello irresistibile di “Subliminale”. Ma c’è l’imbarazzo della scelta: a voi il riff à la Libertines di “Cheap Monday”, la frenesia schietta e catchy di “Figli del Rock’n’Roll”, che mi ricorda tanto Tommi Marson e i suoi Onesti Cittadini, il synth anni Ottanta che spedisce “Crepuscolari” in zona Cure, la progressione di accordi così deliziosamente Arctic Monkeys di “Maledettismo Moderno”.

C’è un solo brano che non mi piace, ma non fa alcuna differenza, è come vincere quattro a zero anziché cinque a zero: la colpa è solo mia, non certo dei Panta, e comunque non vi dirò qual è. Mi tengo gli altri nove, che tutti insieme sono già un prodigio di opulenza creativa, un’autentica esagerazione.

Il disco è questo: fuori moda e bellissimo, testardo e impavido, incurante dei tempi che corrono.

È un disco anacronistico, ed è in ciò il suo splendore. (Manuel Maverna)