VISCONTI "Boy di ferro"
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Mi dispiace avere avuto tra le mani questo album - datato ottobre 2024 - solo ad inizio 2025, ché ben volentieri lo avrei omaggiato nelle menzioni di fine anno, concedendogli meritato risalto, lustro e spolvero. Ma amen, è andata così.
Ora: non saprei stabilire in quanti, a marzo 2022, si siano accorti come Dio comanda di Valerio Visconti e del suo debutto “DPCM”, che – va detto – era un gran disco, concepito, scritto e registrato in casa durante la pandemia, imparando a suonare tutti gli strumenti, sputando fuori dalla cameretta il disagio ribollente di un ventenne che cercava qualcosa da fare avendo qualcosa da dire. Sette tracce home made, rifinite poi da Giulio Ragno Favero, pubblicate per Dischi Sotterranei con belle velleità, e nell’anima, in fondo all’anima, fresche rimembranze dei Cani che furono, con tanto di fitto name dropping, passo incalzante e melodie giuste al posto giusto come i colori del Mastermind.
A tre anni dall’esordio, irresistibile richiamo di sirena per chiunque – eccomi! – subisca tuttora il fascino inarrivabile di Niccolò Contessa e della sua longa manus sul meglio pop italiano a seguire, Visconti si ripresenta su Dischi Sotterranei/La Tempesta Dischi con “Boy di ferro”, dieci nuovi pezzi che conservano sì intatti i crismi, l’urgenza e l’ispirazione degli albori, ma accoppiati ad un taglio più oscuro, ad un’accurata definizione dei suoni, ad una scrittura inasprita da vicende personali, maturata negli intenti, tuttora ermetica, meno dispersiva.
Tra le spire di un indocile post-punk sui generis, godibile ma tagliente, imbastardito a dovere e contaminato quanto basta da tentazioni up-to-date, pulsa un brulicante microcosmo di affetti spezzati, cuori infranti, rabbia compressa, sempre in precario – ma prodigioso – equilibrio fra testi incisivi, scaltri, accattivanti, ed una verve sibillina, tanto sfavillante quanto opprimente.
Emblematico e programmatico il trittico iniziale, aperto dalla furiosa impennata di “01010110”, scosso dalla nervosa bordata up-tempo di “Battesimo oscuro”, suggellato dal battito meticcio di “Wandervogel”; come già in passato, ci sono idee pungenti e ritmo frenetico, arrangiamenti accattivanti e ritornelli efficaci che veicolano versi spinosi, ben poco accomodanti o concilianti.
Brani come “Sotto Trema”, “Salsa rosa” e “CTIPP”, che la produzione di Fight Pausa caratterizza con forza, lambiscono il groove furbo del nuovo pop imperante, ma conservano immutata una distintiva vena sottilmente malevola e storta, un quid di malsano e corrotto che serpeggia infido tra parole talora più pesanti della veste che le avvolge.
Con dosi diverse ed ingredienti variabili, nel frullatore finiscono Pop X e Calcutta, Coez (“Disordine”, con ampia melodia in crescendo) e molto di quell’altro signore romano di cui si è già detto, ma anche sussulti che svelano una non sopita attitudine punk e sporadiche concessioni à la page; in coda, spiccano l’inattesa progressione armonica dagli accenti jazzy di “Ascendente”, la furia abrasiva à la Negazione (sic!) di “Girotondo”, la chiusura visionaria, mossa e vibrante, di “Wicca”, che colpisce e affonda in un turbine di synth saturi e sentimenti degradati, decadenti, sgretolati.
Sulle ali dell’ennesimo chorus killer, rimane ad aleggiare a mezzaria - vivido ed incombente, ineluttabile e necessario – lo stimolante sentore di qualcosa che non va. (Manuel Maverna)