IL MURO DEL CANTO "La mejo medicina"
(2025 )
Uscito per Goodfellas / Believe, “La mejo medicina” è il sesto album de Il Muro Del Canto, folk rock band romana che canta spesso in dialetto, alternato all'italiano. Il vernacolo, solitamente usato come fonte di ilarità, qui non disdice l'ironia a sprazzi, ma mostra anche diverse possibilità poetiche e serie. Il disco ad esempio si apre con una citazione cinematografica. Il ritornello “Che te lo dico a fa'” dice: “A noi ce frega er core”, frase che proviene dal film “Nell'anno del Signore” di Luigi Magni. In effetti, a tratti sembra di vedere il sorriso beffardo di Ninetto Davoli, in uno dei paesaggi di Pasolini: “Volevi tutto, che prepotente, ma che me levi se nun c'ho niente”.
I sei membri della band sono affiancati da cinque ospiti, tra cui le cantanti Bianca Giovannini, voce della Banda Jorona, e Alessandra Arcangeli; Alex Valle alla pedal steel guitar, Giuseppe Russo ai sassofoni e Mirko Rinaldi alla tromba. Il sound gravita tra un country rock, come quello di “Sotto n'artro cielo”, lenti melodici come la titletrack e corse folk marcianti come “Aprile”, canzone che cavalca il tempo a suon di tromba e della fisarmonica del tastierista Edoardo Petretti, nuovo membro fisso della band.
“Sotto n'artro cielo” accentua la vena melodica delle canzoni, cantate dal frontman Daniele Coccia Paifelman, narrando di un'italiana emigrata in Germania in cerca di fortuna, separata dal suo amato rimasto in patria. La malinconia continua in “Montale”, e qui mi accorgo di una cosa: il testo alterna versi brevi a endecasillabi.
Le undici sillabe per verso tornano anche nell'emozionante titeltrack, “La mejo medicina”, che focalizza quello che fin dall'inizio del disco si accenna: la contrapposizione tra i falsi bisogni che si rincorrono con affanno, e una visione più scialla, magari disprezzata da chi invece sente il bisogno di “distinguersi dagli altri, dalla massa informe”, e tutte quelle ca..ate competitive che ogni trent'anni una nuova corrente ripropone.
Prima i decadentisti, poi i futuristi, poi il sogno americano quotato in borsa... Fino agli influencer che ti dicono di svegliarti alle sei di mattina per migliorare il tuo mindset. Alla fine tutti si sentono come l'albatro di Baudelaire, che gli altri marinai ignoranti catturano solo per il gusto di atterrarlo, brutti cattivi, perché se no sai quanto sarebbe volato in alto (sì, lo so, sto ribaltando il significato originario della poesia, ma a me tutta 'sta boria da poeta maledetto m'ha sempre fatto venire un sorrisetto). Nessuno si vuole sentire un semplice passero di passaggio. Tutti albatri!
Già dalla prima canzone si cantava un'umanità che riscalda, contrapposta a un modello di comportamento cinico e spietato che risulta imposto dalla società. Il protagonista che canta infatti smaschera l'altro, l'ipotetico duro e affarista, sgamandolo a “piagnere come un frignone”, ma non si rifà su di lui, anzi lo invita a casa e gli offre da bere. Tornando alla titletrack ribadisce: “Il nostro sogno t'è sembrato poco, t'è sembrato er vizio de 'n fallito. E ogni giorno m'arzerò contento d'avè 'n cantiere un paio de canzoni, che strilleremo fino a fa' mattina, st'amore che è la mejo medicina”.
“Aprile” è un mese che quando i cantautori lo toccano, diventa arancione, tra la frizzantezza della primavera e la Storia (quella italiana) che sembrava rifiorita con la natura. Qui c'è un dialogo tra ragione e cuore, perché i tempi che conosciamo sembrano finiti. Viene da arrendersi al nuovo mondo peggiore che stanno costruendo. E quel mese, inequivocabilmente, ispira un motto di resistenza: “Se non ritorna la pace, se il male vince la guerra, risali il fiume al contrario con me, non rimanere per terra. E se chi c'era non c'è, adesso c'è chi non c'era, passa l'inverno, non chiederti se ritornerà primavera”. Dobbiamo riuscire a passare questo inverno, senza restarne congelati dentro.
In perfetta sequenza concettuale arriva la cover di Pierangelo Bertoli: “Eppure soffia”, con le sue piogge radioattive. Tornano gli endecasillabi in “Pe' troppo amore”. Un ritmo in shuffle in un brano western, condito da una spruzzata elettronica, per una semplice canzone d'amore: “Er mejo giorno che so stato ar monno / è stato quello che te stavo accanto”.
“Minerva” evoca la Dea Romana per rappresentare il (ri)sorgere della lotta delle donne: “Non c'è Padre, non c'è Dio, che respiri al posto mio. C'è una Madre nell'oscurità che non risponde ai tuoi altolà. Ma darà fuoco a tutto, risputerà quel frutto. Minerva tornerà in città, ridisegnerà tutto”. Il vernacolo si concede lo scherzo in “Come l'antichi”, canzone edonista dalla melodia ironica in tonalità minore, su ritmo cadenzato, che comunque continua il contrasto tra la volontà di vivere con ritmi e con modi più naturali, rispetto al rigido codice comportamentale: “Me piace fa' mattina, me piace bestemmià li santi che ricordo e vostra Santità. A me come l'antichi me piace girà nudo come mamma m'ha fatto, purtroppo son cresciuto, ma lunedì me porta a lavorà...”
L'album si chiude col recitato “La bandiera”. Un ricordo d'infanzia (“le piante de tabacco erano più arte de me”), la risalita di una collina, per conquistare un nuovo panorama: “Era bello davero, de far tutta 'sta scarpinata ne era valsa la pena”. E allora ci pianta una maglietta col bastone, e diventa la sua bandiera. Un'immagine lasciata decantare nel finale strumentale, un commovente rock lento.
È il sesto album ma io li ho scoperti solo adesso... me vado a ripassa' li precedenti! (Ecco ho fatto un endecasillabo anch'io)! “La mejo medicina” è un affresco di umanità e di belle cose, che non guardano indietro perché non sono nostalgiche. Queste canzoni paradossalmente mi fanno venire una “nostalgia del presente”, perché se volessimo potremmo vivere adesso con questa visione sognante, per non soccombere alle brutture e al grigiore che ci è imposto per sopravvivere. (Gilberto Ongaro)