ANTONIO CALABRESE "I denti di leone"
(2025 )
Nato nel 2001 nella provincia di Salerno dove tuttora abita, il giovane chitarrista e cantautore Antonio Calabrese si distingue già per una grande maturità artistica e per la sua comprensione del mondo: “comprensione” nel senso etimologico della parola, come capacità di contenere in sé.
Infatti, nei soli quattro brani che compongono il disco “I denti di leone” – uscito il 6 dicembre 2024 tramite L’Airone Dischi – l’ascoltatore può sentire delle frasi che, pur essendo semplici ed
equilibrate nella metrica, racchiudono dei significati profondi e complessi riguardanti le domande sul senso della vita, la caducità delle razionalizzazioni individuali di fronte all’eternità infinita intorno a noi, la storia e le sofferenze dell’umanità, la disponibilità a donare la propria vita per l’amore.
“I denti di leone” è un’opera per la quale si è proceduto con molta cura. L’autore spiega: “Ho scelto di lavorare a questo disco con dei professionisti del settore, in ogni campo: le registrazioni sono state curate da un ingegnere del suono; è un disco suonato in ogni sua parte da musicisti professionisti; il
mastering è stato eseguito in uno studio professionale e curato da un master engineer; la comunicazione e la parte promozionale è stata affidata ad un ufficio stampa serio; la copertina è stata eseguita da un artista”.
E tutto ciò, aggiungendosi alla maestria musicale e poetica che è stata alla base del progetto, ha prodotto una vera e propria meraviglia… forse un’introiezione della “meraviglia intorno a me”, che Antonio Calabrese osserva nel testo della seconda canzone presente sul disco.
Se si vuole per forza inquadrare i quattro brani in un genere musicale, il più adatto come caratteristiche potrebbe essere il folk. Tuttavia la raffinatezza e l’unicità degli abbinamenti sonori li rendono difficilmente catalogabili.
Create inizialmente per poter essere accompagnate solo con la chitarra, in questa raccolta le delicate e potenti canzoni vedono aggiungersi gradualmente diversi altri strumenti musicali. Ogni strumento ha il suo luogo e il suo ruolo ben precisi, in perfetta armonia con tutte le altre fonti sonore, a tal punto che la loro moltitudine nemmeno viene percepita al primo ascolto: solo in seguito a ripetuti e attenti ascolti, i suoni dei diversi strumenti si cominciano a distinguere uno per uno.
Tutti portano il proprio contributo all’insieme, ma ci sono dei momenti in cui alcuni strumenti producono un particolare effetto uditivo: l’oboe verso la fine del primo brano, le percussioni nel secondo e nel quarto, oppure altre voci strumentali o corali, distinguibili a seconda della sensibilità e delle preferenze di ogni ascoltatore.
Non possiamo a questo punto non elencare i nomi dei musicisti che hanno partecipato alla realizzazione del disco: Antonio Calabrese (chitarra, piano, voce); Mario Petacca (violino); Valentino Milo (violoncello); Lucio Auciello (basso, chitarre elettriche, nonché registrazione e mixaggio); Giovanni Caiazza (batteria); Alessandro Ferrentino (tamburi a cornice); Pietro Avallone (oboe); Michelangelo Bencivenga (banjo); Giulia Romina Pagano, Francesca Rossi, Giuseppe Rossi, Mario Petacca, Lucio Auciello (cori).
I quattro brani hanno una struttura musicale rigorosa (ma non rigida!) e ben definita: si parte piano, con la voce solista e con la chitarra, dopodiché l’intensità aumenta, si aggiungono altri strumenti e la voce diventa più graffiante.
Anche nel testo poetico sono presenti delle idee e delle immagini ricorrenti, che in un certo senso fanno da scheletro o da filo conduttore per l’intero concetto. Per esempio, c’è l’idea per cui l’uso esagerato del pensiero/linguaggio umano (spesso cristallizzato in ideologie e religioni) è inutile e a volte può persino uccidere...
Già nel primo brano l’autore si domanda “cosa ne sarà/ della mia pelle o delle mie ideologie,/ quando la vita pioverà,/ farà fango delle mie realtà e delle mie fantasie”. Nella seconda canzone
invece il ritornello parla solo di questo: “La meraviglia si apre a me,/ Ma io mi perdo fra i suoi perché,/ Fra religioni ed opinioni superflue./ Ma quando il mare si ritirerà/ E la terra seccherà,/ Avrò solo le mie risposte/ E una vita senza niente più da vivere”.
In “Umana umanità”, il terzo brano del disco – vincitore del premio Cesare Filangieri 2024 – gli uomini muoiono “uccisi da una ideologia, da una religione”, mentre nella quarta canzone (dedicata all’amore assoluto per un’altra persona e intitolata in arabo “Ya’aburnee”), l’autore afferma: “Dimenticheremo le lingue e le calligrafie/ Ma troverò il modo di decifrare le tue psicologie”.
La title track, come spiegato dal suo autore, “parla della paura dell’annullamento” e probabilmente il suo titolo si può interpretare proprio attraverso l’immagine del fiore i cui semi volano via come la vita dell’individuo. Ma tuttavia la pianta rimane viva, così come l’anima si mantiene viva se sappiamo proteggere le emozioni e la bellezza intorno a noi: “Io non mi lascerò privare delle mie emozioni” e “quando il sole mostrerà la via dell’orizzonte,/ Non c’è forza che sia maggiore/ A quella di questa bellezza/ Ed io la proteggerò per ricominciare”.
È interessante e suggestivo il modo in cui è nata la canzone “I denti di leone”. Sulla sua pagina Facebook, Antonio Calabrese confessa: “La parte di chitarra è stata una tra le prime che avessi mai scritto, ma non sono mai riuscito negli anni a cucirgli un testo adatto. Una sera decisi di far ascoltare questo “arpeggio” ad una persona speciale, che mi rivelò la sua verità dietro questa canzone. Dopo mezz’ora nasceva “I denti di leone”, la title track del mio primo EP”.
La musica del brano, dunque, racchiudeva in sé il contenuto poetico già prima che esso fosse stato espresso con delle parole: è bastata la sensibilità di una persona speciale per l’autore e le parole non hanno tardato a farsi scoprire… Una meraviglia, appunto.
“La meraviglia” è anche il titolo del secondo brano, in cui – spiega l’autore – il mondo “viene sezionato in tre strofe: flora, fauna e genere umano”. Di questa canzone c’è poco da dire, diciamo
che si presenta da sé mentre la ascoltiamo… magari lasciando da parte l’atteggiamento critico e il sarcasmo – che in alcuni di noi nascono spontaneamente di fronte a un ragazzo che vuole dividere il mondo per categorie – e facendoci invece coinvolgere dal suo entusiasmo giovanile così armoniosamente espresso in musica e parole.
“Umana umanità” viene presentata da Antonio Calabrese come una “reazione a questi anni vergognosi che stiamo vivendo, o meglio vedendo”. È, secondo noi, un grido d’impotenza di fronte a tante ingiustizie sociali alle quali possiamo solo assistere senza riuscire a intervenire per migliorare la situazione. “Una canzone può davvero cambiare le cose?”, si domanda il cantautore
sempre sul suo profilo Facebook. “Probabilmente no. Però se su miliardi di persone, la mia canzone giungesse all’orecchio di qualcuno, e quel qualcuno decidesse di essere migliore, allora potrò dire che sì, in piccolissima parte il mondo sarà cambiato”.
Nel testo di “Umana umanità” la protagonista è, appunto, l’umanità, che attraverso la voce del cantautore parla in prima persona, come se fosse “un uomo molto vecchio, stanco, assetato e
affamato, confuso e smemorato”. Quest’uomo vecchio racconta della fame che non riesce a saziare nonostante il pane che gli è stato dato, degli imperi che ha visto cadere, delle parole che ha visto
cambiare e svanire, delle culture che ha visto fiorire, degli dei in cui ha creduto, dei padri che ha avuto, delle terre e dei governi, che in fondo null’altro sono che “storie tristi di confini, storie tristi di denaro”…
Sentiamo anche delle riflessioni con carattere filosofico, come “Conosco tutto e, nonostante tutto, resta tutto da imparare”, oppure “Ma non riesco a ricordarmi come mai non riuscissi ad accontentarmi”.
Il brano culmina con la parte finale, definita dall’autore come “un forte messaggio di denuncia, […], crudo e diretto”, in cui si fa un palese riferimento alle migrazioni dei popoli. Com’è risaputo, spinti dalla povertà e dai conflitti armati, questi popoli sono costretti a lasciare le proprie terre, spesso finendo per affogare nel mare. C’è da osservare il passaggio dalla prima persona singolare (“Sono morto in mare dopo esser morto di fame”) alla prima persona plurale (“Siamo morti in mare dopo esser morti di fame”), rafforzando l’idea di un’immensa collettività…
Inoltre, l’uomo molto vecchio in cui viene personificata l’umanità dice tra l’altro di essere “morto senza un nome”, richiamando alla memoria le tante vittime che vengono solo quantificate con dei numeri, senza che c’importi niente di loro come persone.
Dell’espressione “Ya’aburnee”, che dà il titolo al quarto e ultimo brano dell’EP, Antonio Calabrese ci spiega che viene usata dalle persone della Siria e del Libano e che non ha una traduzione letterale nel vocabolario italiano. Il significato che, secondo il cantautore, sarebbe il più vicino a quello originale può essere espresso così: “Preferirei morire prima di te, perché non posso vivere un solo secondo senza di te”.
La canzone è quindi un inno all’amore totale, che prescinde da tutto e che vince tutto. Le parole sono di una persona molto innamorata, che sarà sempre disponibile per la persona amata, senza però toglierle la libertà: “Quando avrai paura/ Tendimi la mano,/ Non sarò mai troppo lontano”; “Ti lascerò i tuoi vuoti,/ Ti lascerò i tuoi spazi,/ Ogni volta che me lo chiederai”.
Come nell’Inferno dantesco, anche in questa canzone sembra che il male più profondo risieda nel ghiaccio del silenzio e nell’immobilità: “Contro ogni silenzio suonerò,/ Nei tuoi giorni più fermi ci sarò”. E il verbo “proteggere”, usato nel primo brano del disco per riferirsi alla bellezza della natura che va protetta, torna anche in quest’ultimo: “Si scioglieranno i ghiacciai,/ Bruceranno i boschi,/ Ma proteggerò dalla cenere e dalla neve i tuoi occhi”.
Chissà, forse alla fine è proprio in questa parola che si trova l’essenza del tutto: proteggere la vita, per mezzo dell’amore, contro la morte. (Magda Vasilescu)