recensioni dischi
   torna all'elenco


TOMMASO TALARICO  "Canzoni d'amore per un paese in guerra"
   (2024 )

“E dico addio (…) a chi parla sempre di un futuro trionfale, e ad ogni impresa di questo secolo trionfante”, cantava Guccini nel 1999 in “Addio”, con un irripetibile trasporto emotivo. Il trionfalismo del passato sembrava ormai cosa richiusa nel cassetto della Storia, da riguardare solo per non ripetere gli stessi errori. Invece oggi ci troviamo di nuovo di fronte alle stesse scemenze, a cui ci si aggrappa quando i cittadini sono abbandonati nelle difficoltà, da una classe dirigente prona agli interessi – mi fermo qui, perché poi inizio a delirare, come Nanni Moretti: “Ho voglia di litigare con qualcuno!”.

Riparto. Guccini salutava il XX secolo dicendo addio ai trionfalismi che hanno caratterizzato la prima metà del Novecento. E da questi il cantautore Tommaso Talarico parte con il nuovo disco “Canzoni d'amore per un Paese in guerra”, con l'introduttiva “Previsioni del tempo”, aperta da un pianoforte che intona l'Inno alla Gioia, presto raggiunto dalla sinistra voce di Filippo Tommaso Marinetti, che nel 1909 urlava il Manifesto Futurista, dove celebrava la guerra, “sola igiene del mondo”, e disprezzava la donna e il femminismo. Vi suona familiare? Infatti il cantautore ci riporta poi all'attualità: “Questo vecchio palazzo sta crollando. E risuona un rumore, nelle piazze virtuali, per le strade d'Europa, di stivali chiodati (…) non credere ai poeti e alle loro illusioni, e guarda, il cielo è gonfio di vecchie bandiere, eterne ragioni”.

Uscito per RadiciMusic Records, è il secondo album di Talarico, che dopo questo pezzo “anti-manifesto” del disco, passa subito all'elefante nella stanza, che da almeno una decina d'anni quasi tutti i cantautori sentono di dover affrontare. “È mia figlia” è uno sguardo sui migranti che attraversano il Mediterraneo. Appena l'ho sentita, ho immaginato i mal di pancia di diverse persone che questa storia non la vogliono sentire. Sono i “cattivisti”, che bollano come “buonisti” chiunque abbia ancora un briciolo d'empatia. Ma confesso che una vocina malevola ce l'avevo anche io, in me. Non perché sia indifferente al dolore, anzi, ma perché in effetti esistono già numerose canzoni sull'argomento; con un po' di humor nero, ci potrei compilare una “Playlist dei barconi”!

Dico questo perché in molti dei casi in cui mi ci sono imbattuto, mi sono chiesto quali fossero le intenzioni di chi scrive. Anche nei discorsi coi parenti a Natale (oggi che scrivo è Santo Stefano), mi son sentito chiedere come facciamo a vivere sicuri in Italia “se fanno entrare tutti”. La propaganda che spaventa i cittadini coincide con alcuni casi effettivi di delinquenza (su cui i politici ci marciano anziché prevenire, fermati Gilberto non ricominciare...). Ma che gli vuoi dire ai parenti? Mi son sentito un po' come Zerocalcare, che ieri ha raccontato il cenone nel suo podcast.

In questo caso però, quelle di Talarico mi sembrano parole sincere, perché il suo sguardo cade su un'immagine, di un padre che porta in spalle la figlia tra “i mitra già spianati”, e si domanda: “E se fosse mia figlia?”. La canzone diventa un'immedesimazione nel padre, ma anche nei figli, nelle loro condizioni spaventose, soprattutto nei passaggi intermedi di quel cammino, in veri e propri campi di concentramento: “Gli uomini aspettano il vento, e non resta altro che un'eco disperata, tra pareti di cemento”. Credo che, finché la decennale situazione non cambierà, ci sarà sempre una penna pronta a scriverne e ricordare i nostri privilegi.

Superato l'elefante nella stanza, Talarico torna indietro nel tempo, ai propri ricordi di Calabria, e alla terra che anche lui ha dovuto abbandonare. Ma oltre ai genitori, va un po' più indietro del previsto: “Pensa, qui dominavano vulcani 5 milioni di anni fa, i dinosauri (…) il mare già inondava la pianura”. Il mare che inonda la pianura è un'era geologica fa, ma potrebbe anche essere il futuro prossimo! La canzone, dopo un andamento delicato sul pianoforte, parte con tutta la band in un crescendo emotivo.

“Respira” è il pezzo più rock e più divertito dell'album, suona un po' à la Ivan Graziani. Con una voce compressa, inizia con un fugace sguardo a certe orribili situazioni palestinesi (“I missili sui funerali, le bombe sugli ospedali”), per poi osservare invece la nostra frenetica quotidianità, in cui non sappiamo distinguere cos'è importante e cosa no, nella miriade di stimoli e di notizie gravi e notizie inutili sparate tutte insieme.

“Majorana” apre un caso poco raccontato, quello di Ettore Majorana, che lavorò per Enrico Fermi, ma sparì nel nulla nel 1938, a 32 anni. Talarico canta della ricerca quantistica: “Desiderare il segreto del cosmo, ma dietro al segreto chi c'è”. Fa un parallelo tra i segreti del suo lavoro e il mistero della sua sparizione, e la canzone termina con la voce di Truman che annuncia il lancio della bomba atomica. Non c'è correlazione, ma in una lettera Majorana scrisse che la fisica sta sbagliando strada, e al cantautore piace pensare che avesse intuito dove stessero portando le nuove scoperte scientifiche.

Talarico torna sull'argomento principale, quello della propaganda, con “La tua paura”, incarnando il timore in prima persona: “Io sono l'invasore, il fantasma nelle strade (…) e ora ti hanno dato un nemico da bruciare. L'odio ha bisogno di nemici”.

E dall'odio instillato, con “Ghina” si passa a una delle vittime, che Talarico ha incontrato per caso quand'era piccolo, all'ospedale di Bologna, dov'era per via di sua sorella. Entrò una bambina libica ustionata, senza accompagnatori, che si chiamava Ghina. Durante il ricovero, la madre di Tommaso si prese cura anche di lei, oltre che della sorella. Nella canzone si assume il punto di vista di Ghina, del suo scioccante ricordo: “Orde di predoni nella notte più scura dalla bocca dell'inferno, come polvere al fosforo sulla mia pelle giovane. Mia madre era bellissima e lucente, mio padre era un grande combattente. La terra bruciava e l'aria, i miei occhi crocefissi alla paura per l'eternità”.

“Diario dei giorni senz'aria”, canzone che l'autore non vuole spiegare troppo, ci presenta un viaggio di ritorno che non sembra pacifico: “La città ci apparve alta sul finire del tramonto, come in sogno e noi, con le armi in pugno, con la fame dentro agli occhi, gli occhi al cielo per un regno, un Paradiso da incendiare”. L'incedere della canzone la fa sembrare uno dei pezzi acustici degli Afterhours.

E infine, su un arpeggio morbido di chitarra, l'album finisce con “La tregua”, ancora una volta in uno scenario di guerra, dove due amanti approfittano di un momento senza spari per sognare di volare: “Sembra un secolo, non ricordavo più, un cielo così naturale, da guardare senza aver paura. Ora dormono i bambini, le sirene e gli aeroplani, dorme l'odio che ci uccide, ma si sveglierà domani, con il torto e la ragione, per un Dio, per una nazione, e l'amore dove mai sarà?”.

Talarico si congeda con questo augurio dolceamaro di pace. Le sue “Canzoni d'amore per un Paese in guerra” feriscono non tanto per la novità, ma proprio perché sono già state scritte pagine su pagine, è già stato versato inchiostro su inchiostro a proposito di guerre e propaganda dell'odio, e in questo modo. Parafrasando Bob Dylan, mi viene da chiedermi how many canzoni bisognerà ancora scrivere, before quest'argomento sia definitivamente fuori moda? Mi auguro solo che ci siano nuove giovani orecchie ancora aperte a questa sensibilità, perché abbiamo ancora bisogno di una struttura editoriale che diffonda queste nuove cantacronache. (Gilberto Ongaro)