FEAR OF THE OBJECT "Leaves never fall in vain"
(2024 )
Che rumore fa un'immagine? Proprio fisicamente, quale sarebbe il suo equivalente acustico? Sembra una domanda sciocca, fatta per il gusto della sinestesia, eppure i fotografi sanno bene che il “rumore” è anche un disturbo visivo nei loro scatti. Ma è una cosa che si vede. Se si potesse sentire?
Altra introduzione: siete mai stati in uno di quei musei scientifici interattivi, dove ti fanno giocare con schermi, joystick e oggetti vari, per sperimentare di persona certe proprietà fisiche? Un po' la sensazione di “Leaves never fall in vain” è quella. Il progetto che si chiama “Fear Of The Object”, rubando un'espressione da Hegel, esplora il rumore degli oggetti, cercando di capire cosa possano “dirci” se correttamente sollecitati.
Tra i membri del collettivo troviamo Ingar Zach, che già abbiamo conosciuto su queste pagine, per le sue membrane vibranti e i suoi tentativi (riusciti) di far parlare i tamburi, ottenendo suoni inediti dalle percussioni (https://www.musicmap.it/recdischi/ordinaperr.asp?id=9615). Questa volta, Zach racconta che, assieme a Kjell Biørgeengen (poi racconteremo meglio cosa fa), il progetto parte da una serie di esperimenti falliti insieme, fino ad arrivare al punto che ascoltiamo qui.
Uscito per True Blanking Records, “Leaves never fall in vain” contiene un'unica traccia di 52 minuti, che potrebbe essere estenuante se non ci si approccia nel modo giusto all'ascolto. Non siamo qui per ascoltare melodie, armonie o ritmi. Kjell Biørgeengen compie una fusione di video arte e ricerca sonora: prende un tubo catodico, e gioca col campo magnetico che crea attorno ad esso, generando segnali, disturbi elaborati nel corso dei 50 minuti. Accanto a lui, Zach dà il suo contributo con le sue membrane, e ci sono anche Inga Margrete Aas al contrabbasso, e Aimée Theriot al violoncello. Ma entrambi, se non il contrabbasso per qualche istante, non si riescono quasi a riconoscere nel flusso.
Tutti e quattro contribuiscono ad un magma indistinto, registrato live a Oslo, al Kunstneres Hus (cioè “Casa dell'Artista”), che durante l'esibizione corrisponde anche ad una parte visual. Quando l'esperimento viene fatto finire, sfumando i rumori, il poeta David Henderson pronuncia il suo poema “Democracy Destruct”, che riguarda il potere americano, fatto di guerra e narrazione a distanza, tramite schermi che ci tolgono il bisogno di empatizzare con la visione: “Bombs falling from camera's eye (…) those who are prepared to die, enemies of God (...) the power of the public perception (…) democracy, not an option (…) spectacurlarly fucked up images bombs of America”.
Abbiamo quindi capito l'ambiente: un collettivo anarchico ospita gli esperimenti più arditi e liberi, che tramite la metafisica e le soluzioni sonore non convenzionali, cerca di sfidare la realtà e la sua struttura politica. Se fa paura, se disturba, allora funziona. (Gilberto Ongaro)