ECHOES "Io"
(2024 )
In sei “capitoli”, l'album “Io” degli Echoes è un'esplorazione strumentale, che unisce il sound graffiante e croccante dello sludge metal, con panorami post-rock ed elettronica ambient. Uscito per Dischi del Minollo, “Io” ha l'ambizione di sondare l'animo umano, esperienza che chi riceve può decidere se affrontare o meno: dipende dal giusto approccio all'ascolto.
“La città cade”, nome del primo brano – capitolo, è avviato da un'eterea introduzione di suoni atmosferici. I feedback distorti di chitarra, nonostante in altri ambiti siano chiaramente il preludio all'esplosione, immergendoli in questa coperta sonora, quasi sembrano uno dei tanti elementi di arredo della sfera d'ascolto. Così, quando parte la vera furia, si è quasi sorpresi, come risvegliati: “Ah sì, fanno anche metal!”. Funziona come un brusco risveglio da un sogno incantato.
Tra passaggi in cui mettersi a contare come con i Tool, ed altri momenti più diretti, si passa senza accorgersi al secondo capitolo, “Jacintho”, dal riff più mordente di più del primo, e alterna le chitarre ad un cupo loop synth. “Il nomade: il viaggio” il contributo synth diventa un unico suono che procede come un allarme, accompagnato soprattutto dalla sinistra linea di basso. Quarto capitolo “Il nomade: questa non è casa” parte da dove termina il precedente (è tutto un flusso quest'album), per portare il sound pesante in un mood flemmatico, in un giro monotono in 7/4.
Continua con “Astio”, la monotonia armonica, funzionale all'introspezione. Anche se il tempo è lento, la musica non è calma: l'incedere sul charlie della batteria mantiene l'agitazione, assieme agli arpeggi inquieti della chitarra elettrica, effettati con delay. Quando il brano sembra decrescere, ecco invece un'altra deflagrazione a sorpresa. Ma “Io” chi sono? Chiude l'album “L'orco”, un brano di dieci minuti dai diversi cambiamenti di tempo e ritmo nel corso del tempo, sempre a battiti moderati. Nella seconda metà c'è uno smandolinamento della chitarra che segue una progressione armonica semplice ma efficace. L'instabilità del brano fa in modo di restare incollati ad attendere i nuovi eventi, prestando attenzione anche a cambiamenti minimali.
L'esplorazione di sé può avvenire come no, questo sta a discrezione di chi ascolta. Ma farla con queste sonorità può aiutare a tirar fuori il lato peggiore di sé, cercare di dargli un nome e riuscire a conviverci, un po' come nel finale del film “Babadook” (ops, è un mezzo spoiler, ma guardatelo lo stesso, che ha un bel significato). (Gilberto Ongaro)