DAVID RIONDINO "Bocca baciata non perde ventura anzi rinnova come fa la luna"
(2024 )
Cantautore, scrittore, comico, attore. Difficile inquadrare le attività di David Riondino, noto artista che come cifra stilistica ha una sottile ironia, che traspare con eleganza in ogni creazione. Forse non tutti sanno che dietro “Maracaibo”, portata al successo da Lu Colombo, c'è la sua penna. Piccolo ripasso per ricordare il personaggio (non tutto, solo ciò che ci porta al disco). Ha composto la sigla di chiusura di Zanzibar, sitcom della Mediaset del 1988. Ha scritto canzoni che fanno il verso allo stile di altri, come ad esempio Francesco De Gregori con “Giuseppina che cammina sul filo”, dove imita il suo modo di cantare “accelerato” a fine strofe, e Franco Battiato con “Franco a Catania”, dove riprende le strofe scritte in versi settenari sdruccioli, tanto cari al Maestro nei primi anni '80: “Ricotte mastodontiche / cipolle metafisiche / carabinieri bulgari”.
Nel 2003 fa parte di “Raiot”, il programma satirico di Sabina Guzzanti che le costò il malfamato “editto bulgaro” di Berlusconi. Il fu Cavaliere è protagonista nel 2008 di una “Ode a Berlusconi” di Riondino, Insomma, penso abbiate capito la sua irriverenza, espressa però in una forma ricercata, mai volgare. Durante l'amministrazione Raggi a Roma, scrive e recita il “Poema delle buche della Raggi”, componimento in versi rigorosamente in metrica e in rima. E qui si arriva al disco.
Un fiorentino satirico che si cimenta nella poesia non può non confrontarsi con Giovanni Boccaccio, fondamentale scrittore trecentesco. Le novelle del suo Decamerone, spesso maliziose, han fatto coniare l'aggettivo “boccaccesco” per descrivere qualsiasi storia pruriginosa. David Riondino attinge dalla raccolta, musicandone molti versi e ottenendo delle ballate, pubblicate nell'album “Bocca baciata non perde ventura anzi rinnova come fa la luna”.
Con un supporto musicale folk (tra fisarmonica e tin whistle, accanto a pianoforte e chitarra acustica, basso e percussioni), l'album inizia dal Proemio in “Umana cosa”, dove Boccaccio dedica la sua opera alle donne, per il loro “peccato di fortuna”, cioè la sventura del loro svantaggio, che il letterato già all'epoca riconosceva. Poi “La Peste”, declamata con solennità, riprende le descrizioni di “quando nell'egregia città di Fiorenza pervenne la mortifera pestilenza”. Chiaramente il pensiero va ai recenti lockdown, quando Riondino canta: “Alcuni racchiudendosi in case temperatamente usando vini e cibi ogni lussuria fuggivano, altri beffando di taverna in taverna giorno e notte bevendo in case d'altri morivano”.
Come ricorderete, nel Decameron un gruppo di ragazze e ragazzi si isolano in un giardino, fuggendo dalla peste, a raccontarsi le storie a vicenda. E allora, nella breve “Il Giardino”, una voce femminile ci ambienta in quel locus amenus, per poi partire finalmente con le vere e proprie novelle. E allora ecco “Il Monaco della Lunigiana”, mosso da concupiscenza verso una giovinetta. Qui si conferma giusta l'intuizione di Riondino: avendo una rigorosa metrica, i versi si prestano a “correre” in un canto da filastrocca, che ricorda quello di De André nei suoi momenti più goliardici (come in “Carlo Martello”, quella scritta da Paolo Villaggio).
Si passa alla moglie fedifraga “Madonna Filippa”, sopra un clavicembalo, suono tanto amato dai moderni trovatori del Novecento, poi è il turno dell'ottuso “Frate Puccio”, passando per “La novella di Anichino”, la storia per antonomasia del cornuto e mazziato. Ma c'è anche spazio per la più tragica e granguignolesca vicenda di “Tancredi e Ghismonda”. Le note legate di un violoncello riscaldano l'arrangiamento saltellante de “Il falcone di Federigo”, ma qui Riondino si concede un commento critico con la canzone-appendice “Il falcone in cielo”, assumendo il punto di vista dell'animale sacrificato, e per farlo si rivolge “ai critici della letteratura”.
Le canzoni sono iniziate da un momento recitato, dove viene mantenuto l'italiano trecentesco. Il lessico si mantiene arcaico ne “La storia di una monaca”, altra storia boccaccesca incentrata sulle “brache del prete”. La declamazione è esilarante di per sé, anche senza pensare al significato del testo, perché ricorda quei canti monotoni dei primi comici cantanti dello Zelig, quello ancora degli inizi del 1986-1990, come ad esempio la prima versione di “Rapput” di Claudio Bisio.
Una pausa dalle novelle arriva col brano malinconico “O se la morte viene”, dove emerge il pensiero serio di Boccaccio sul celebrare la vita e l'amore in tutte le sue forme, anche quella fisica, per poter arrivare a morire sorridendo. Poi una corsa con la chitarra acustica in levare accompagna “Un collega geloso...”, che ci riporta per un attimo al Proemio, quando Boccaccio si rivolge personalmente agli invidiosi. Prima di chiudere il disco con la versione live di “Tancredi e Ghismonda”, l'album giunge alla canzone più lunga (8 minuti) che racconta senza tagli di “Alatiel”, la figlia del Sultano di Babilonia.
Mi chiedo se Riondino abbia intenzione di fare un secondo capitolo discografico su questo tema, o se per ora basta così (dev'essere stato uno sforzo non indifferente); mi incuriosirebbe sentir musicata anche la novella di Andreuccio Da Perugia, con le sue disgrazie tra una prostituta che si finge sua sorella, e la caduta nella latrina!
Voglio concludere con la canzone a metà disco, dove lo sguardo torna a tempi più recenti, mi sembra il 1973 a giudicare dagli eventi citati. “Il professore e l'autografo” racconta di un docente così incantato dal Decamerone da ignorare il colpo di Stato in Cile, l'uscita di ''Amarcord'' al cinema e la radio che trasmette Lucio Battisti. È così preso da Boccaccio che gli sembra di vederlo: “Gli sta indicando i disegni e sfoglia la pergamena, è sicuro che gli parla”. Questo succede “quando per miracolo un libro attraversa il tempo”. Se Benigni si è fatto assorbire dalla retorica e dalla morale di Dante, Riondino invece ha riportato in vita lo spirito di Boccaccio, dimostrando ancora una volta quanto sia sempreverde... forse più di quello di Alighieri! Ma meglio non aprire faide... (Gilberto Ongaro)