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MAGAZE  "45 byte"
   (2024 )

Ostico e respingente, spinoso come un roveto, storto e disallineato, per nulla accomodante né conciliante, “45 Byte”, veemente esordio per Grandine Records del quartetto romano Magaze, è un assalto a testa bassa, convulso e aspro, scomodo e indigesto.

Con mix e mastering affidati a Giulio Ragno Favero, nove tracce registrate in presa diretta per ventinove minuti di sordo martirio sonoro segnano il perimetro di un album spinto a forza in un’unica direzione, quella di un ruvido esistenzialismo che raccoglie in liriche sofferte e buie la sua inequivocabile digressione (dis)articolata sul mal de vivre che tutti contagia.

Cupo e pessimista, rinuncia ad inseguire melodie inessenziali o passaggi armonici di sorta, privilegiando un taglio spigoloso, spezzato, privo dei tradizionali orpelli strofa-chorus-strofa-bridge: il sentimento espresso va di pari passo con questa musica agonizzante, incalzante e plumbea, nervosa e concisa.

Nel solco delle band in cui Favero milita o ha militato, la scrittura dei Magaze si avvicina all’aggressività contorta del primo Teatro Degli Orrori, con sezione ritmica frenetica, elettricità satura e uno spoken word rabbioso, minaccioso, incombente; vanno in scena brani soffocanti, molesti, ispidi, un martellamento a volte brutale, altrove più compassato, fatto di bassi rimbombanti (la title track in apertura) e drumming forsennato, ricettacolo di vuoti generazionali a perdere, desideri frustrati, no surprises (“Danny”).

Atout numero uno, i testi: ermetici ed evocativi quanto basta a renderli universali, storie di tutti i giorni fatte a brandelli, frammentate, spezzate come vite alla deriva (“Buonanotte”), un crogiolo di disagio e repulsione per le molte effimere sfumature di grigio dell’abituale, comune vacuità (“Estate”). Si tratti di amore & morte o di altri accidenti di percorso, il passo rimane singhiozzante, il clima fosco, l’approccio brusco, un viaggio tortuoso tra sentimenti più o meno dichiarati (“Se Almeno”, quasi i Marlene Kuntz), noise à la Santo Niente con crooning psicotico (“Check check check check”), scoperte suggestioni albiniane (“Ridi Leo!”), perfino una versione incattivita dei Massimo Volume, con liriche che risplendono di una mesta, oscura poesia (“Fragili Giganti v.2”).

Simbolica e lapidaria, “Cella 67” chiude la cerimonia, parole come macigni, reali e vissute, poche pennellate autografe per non dimenticare la tragica vicenda di Valerio Guerrieri, morto suicida senza che qualcuno tentasse di scongiurare l’inevitabile epilogo. Un grido di aiuto destinato a rimanere inascoltato, metafora della vita quotidiana, dove tutto procede discretamente male, senza grandi soluzioni né soddisfacenti vie d’uscita. (Manuel Maverna)