recensioni dischi
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TV LUMIERE  "Il gioco del silenzio"
   (2024 )

A prescindere da suggestioni, echi, riferimenti e dal consueto gioco delle affinità e divergenze che accostano Tizio a Caio nel mare magnum della musica che gira intorno, è indubitabilmente buia, ma peculiare e personalizzata, la versione che del lato oscuro forniscono i TV Lumière, quartetto umbro giunto al quinto album di una carriera incrollabile nella sua pervicace ricerca di un equilibrio stabile tra le disparate influenze su cui poggia.

Pubblicate ora in digitale (ad inizio 2025 è prevista l’uscita in vinile per I Dischi Del Minollo), le nove tracce de “Il Gioco Del Silenzio” arrivano a cinque anni di distanza da “Avrei Dovuto Odiarti”, ideale ripresa di un discorso che, con innegabile coerenza, si muove sinuoso nell’alveo di un elegante songwriting virato noir, introspettivo e morbido.

Sotto l’egida del nume tutelare Amaury Cambuzat, vanno in scena quarantanove minuti intensi e cupi, punteggiati da un drumming gentile e da chitarre che lambiscono atmosfere talvolta psych, altrove western (“Ultima corsa”, ospite Luca “Swanz” Andriolo dei Dead Cat In A Bag al banjo), in un flusso delicato di brani indolenti dal passo felpato, con un taglio tra l’alt-folk degli Handsome Family, il cantautorato intimista dei Baustelle ed alcune sporadiche tentazioni post-rock (“Per Confortare Il Tuo Pianto”, quasi i Giardini di Mirò, o perfino i Cure).

Sottilmente melanconico e pigramente cadenzato, l’album offre rifinite tessiture laid-back con estatiche intro e code dilatate ad accrescerne e sottolinearne la profondità; il canto è pacato, meditativo, accoccolato tra le basse frequenze dei suoni, quasi nascosto nel cuore di tenebra di questa musica tremante, al contempo carezzevole e desolata.

Aperto dalle movenze al rallentatore di “Clinica” - alla quale manca soltanto il crooning di Ferretti per sembrare una outtake di “Linea Gotica” - e chiuso dai nove minuti di sfuggente art-rock in crescendo di “Mondanità”, l’album dispensa le sue trame afflitte nell’aria svenevole e diafana di “Manifesto”, nei disturbi che scuotono “Delirio”, avvolgente e infida alla maniera del Santo Niente, nella studiata flemma di “Eppure l’ho persa”, nella suadente mestizia di “Osservazione Esterna”, fulgidi esempi di una scrittura curata e raffinata che sa destreggiarsi con disinvoltura tra le molte insidie di una proposta sì ardua ed anticonvenzionale, eppure allettante, riflessiva, penetrante. (Manuel Maverna)