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UPUPAYĀMA  "Mount elephant"
   (2024 )

Spulciando un'intervista, scopro che Alessio Ferrari, in arte Upupayāma, registra in uno “studio/stalla”. Il polistrumentista psichedelico registra in un piccolo villaggio di montagna nei pressi di Parma, realizzando il suo terzo album, che definisce “il più infantile dei tre”, in contrapposizione con chi distrattamente, è pronto a dire che più vai avanti e più il tuo progetto è “maturo”, come se crescere fosse sempre un bene.

Al contrario, con “Mount Elephant”, uscito per Fuzz Club Records, Alessio propone un percorso regressivo, dove l'ascoltatore è invitato a lasciarsi prendere dal sound senza troppi intellettualismi. O meglio, delle coordinate stilistiche precise ci sono, ma non sono da prendere con piglio accademico e non ci si devono costruire sopra castelli in aria. “Mount Elephant” è un frullatore di suoni occidentali e orientali, senza alcun intento ecumenico come si faceva negli anni '90.

Lo scopo è l'incanto di per sé, il trovarsi a dondolare la testa per questi ritmi lenti ed ossessivi, dove la chitarra spesso va in fuzz (come nella titletrack che chiude l'album), ma viene filtrata anche attraverso numerosi effetti. Se dal vivo Ferrari suona con una live band, nello studio invece si è registrato da solo tutti gli strumenti, dalla batteria al sitar!

Nominare il sitar vi dovrebbe accendere una spia harrisoniana. E infatti, c'è la stessa voglia di sperimentare che animava il Beatle meno celebrato dal pubblico (ingiustamente). I brani strumentali si costruiscono su dei riff di chitarra, a volte anche solo su dei lick, ripetuti in loop, e sopra ai quali viaggiano le percussioni, la batteria, il flauto... e ogni strumento che compare, aggiunge un colore per formare un caleidoscopio cangiante, ma stabile nell'ipnosi ritmica. Anche i titoli rimandano a visioni mistiche e simbologie esoteriche: “Moon needs the wolf”, “Moon needs the owl”, o “Fil Daği”, brano quest'ultimo che tramite un videoclip animato rivela l'ispirazione dagli amerindi.

“Thimpu” invece è la capitale del Bhutan, nonché titolo della traccia in seconda posizione nell'album. Sono evidenti quindi le coordinate spirituali, sempre viste dagli occhi di un occidentale, anche se chiuso a registrarsi in una stalla. Segno che ancora persiste il desiderio di cercare un altrove, oggi come nell'Ottocento, e il fascino dell'Oriente non è ancora tramontato. Ma dicevo all'inizio, queste sono le classiche seghe che si fanno i critici di fronte ai suoni “etnici” (se nel 2024 il termine ha ancora lo stesso senso di mezzo secolo fa). In realtà, l'esito di questo “Mount Elephant”, è quello di rilassare chi lo ascolta, con un turbine di timbri diversi su ritmi incalzanti, realizzati dal musicista con un piglio giocoso. E più di questo non pretende di essere. (Gilberto Ongaro)