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THE INNER ME  "Rosabelle believe"
   (2024 )

A volte è confortante constatare come band nate con scopi legati al puro divertimento, si trasformino col tempo in un caleidoscopio di stili e umori talmente diversi ed interessanti da diventare spesso, paradossalmente, godibili ed artisticamente importanti.

Il supporto di webzine come la nostra a band sconosciute ai più, come gli austriaci The Inner Me, oltre ad informare su quello che succede loro attorno, tenta contemporaneamente di incoraggiare chi crea musica originale. Così facendo, si cerca di dare importanza a quello che alla fine dovrebbe andare oltre il cosiddetto mainstream.

Gli Inner Me di ‘Rosabelle Believe’ danno questa impressione, perché il loro disco è effettivamente ricco di riferimenti, ma anche di sfumature, voluto e pensato con gusto e passione. Da dire innanzitutto che stiamo parlando di un concept sulla vita e la morte di Harry Houdini. Una personalità particolare ed eccentrica, che probabilmente ha incuriosito i musicisti, permettendo loro di entrare nell’intimo di questo controverso personaggio. Uno stimolo creativo per svelare una storia basata sul suo grande amore per la moglie Bess.

Essendo il rock duro mediamente basato su strutture semplici ed immediate, per la band austriaca non deve essere stato semplice scrivere un album come questo. Pertanto, anche senza ascoltare il disco, è intuibile la padronanza tecnica di questi musicisti, in attività ormai da parecchi anni. Tutto questo preambolo per dire che, se ci si pensa, ‘Isabelle Believe’ racconta sicuramente qualcosa di vero e vissuto, in relazione soprattutto al fatto che i musicisti non sono più giovanissimi.

Fin dall’iniziale maideniana ‘I Am Magic’, The Inner Me mostrano di cosa sono capaci, a partire dalla non scontata padronanza strumentale. Se si analizza il disco da questo punto di vista, si tratta di una specie di “campionario” di stili dove la band attinge per raccontare una storia complessa e tormentata. In dodici tracce è stilisticamente riconoscibile gran parte del metal degli anni ’90, sonorità che ricordano soprattutto Judas Priest ed i già citati Iron Maiden.

Devo essere sincero: alla fine mi è venuta voglia di riascoltare il disco. Avendomi colpito la varietà dei suoni e gli indovinati riff, mi sono reso conto che nel riassumerlo non sarebbe stato fuori luogo se, nelle varie definizioni, mi fosse scappata la parola “prog”. Ho voluto pertanto regalarmi qualche emozione, mettendomi comodo e portando il volume dello stereo ad un livello a cui nel condominio dove abito non erano più abituati.

In sintesi, sono convinto che queste musiche abbiano ancora oggi motivo di essere suonate, quando, come in questo caso, la scrittura è sincera, personale e che non inciampa in forzature. In fin dei conti queste sonorità fanno parte della colonna sonora di una generazione, e che a suo tempo hanno forgiato le intelaiature su cui poggia la musica dura attuale. (Mauro Furlan)