recensioni dischi
   torna all'elenco


THOMAS LIBERO  "La mia guerra"
   (2024 )

Dopo un difficile travaglio artistico iniziato nel 2018, l’11 ottobre 2024 è uscito via Libero Corp. il primo full-length album di Thomas Libero, intitolato “La mia guerra”. Una guerra diversa, o piuttosto inversa rispetto alle altre guerre a cui purtroppo il mondo si è abituato.

Noncurante dei canoni dello showbiz moderno, con un volto dallo sguardo tenero e con un melodioso hard rock che riporta l’atmosfera degli ultimi decenni dello scorso secolo, il cantautore e polistrumentista padovano ci propone una ribellione contro il male attraverso la ricerca dell’equilibrio, dell’armonia e soprattutto di “qualcosa in cui credere”, come lui stesso afferma nel testo della bellissima canzone “Resterò”.

Dopo due EP e due raccolte di cover interamente in inglese, con l’album “La mia guerra” l’artista riesce a svincolarsi dall’idioma globale, esprimendo la propria originalità e autenticità in lingua italiana… con delle rime e una metrica quasi perfette, senza per questo trascurare la logica della sintassi e il significato profondo delle idee.

E mentre altre recensioni del disco scritte in questi giorni lamentano una produzione piuttosto anonima e “plafonata”, noi invece pensiamo che le piccole imperfezioni rendano la musica di Thomas Libero ancora più genuina, più nostra, più vicina alla quotidianità tutt’altro che brillante in cui viviamo.

La title track, anticipata all’inizio del disco da una breve introduzione intitolata “07/03” (data di nascita del cantautore), lancia “un messaggio contro l’autosabotaggio”. In una cornice strumentale simile a una danza medievale, che in qualche modo ricorda le ballate di Jon Bon Jovi, il ritornello del brano recita: “La mia guerra è finita, ho perso perché/ Ho combattuto contro di me”… E viene spontaneamente da pensare che in un mondo dai valori relativi, in cui spesso il bene e il male si possono confondere e sostituire a vicenda, sia facile sentirsi dalla parte sbagliata e lottare contro di sé credendo di dover migliorare, quando invece si è dalla parte giusta e spetterebbe ad altre persone cambiare atteggiamento verso di noi.

Un’idea simile si evince dal brano “In questa città”, nel quale la “città” è probabilmente una metafora per riferirsi all’intera società. Ad un certo punto nel testo viene detto: “In questa mia ricerca vedo che/ Son pronti ad attaccarti anche se/ Sei educato e dici i tuoi perché/ Ma il male è moda e tu non sai cos’è”… Parole piene di verità, in cui ci riconosciamo e che spingono a una riflessione ancora più pessimista: a volte son pronti ad attaccarti PROPRIO PERCHÉ sei educato.

Nel ritornello fanno un effetto molto piacevole i suoni del registro vocale tendente al medio-basso, ed è un’ottima idea quella dell’utilizzo dei cori, che aggiungono ulteriore spessore alla voce.

Le ripetute delusioni giustamente causano l’isolamento in un mondo personale e scuro, in cui poter stare tranquilli pur essendo tristi, come veniamo ad apprendere dal testo del brano “Lasciatemi stare”: “Ho spento la luce anni fa/ Per non vedere la realtà”. L’autore avverte la difficoltà di riflettere sul senso delle cose e sul da farsi (“Non riesco più a vederci chiaro”), come d’altronde avviene anche in “Resterò” (“Cerco ovunque la mia strada, ma non vedo più,/ C’è una forza che mi tira giù”).

Il “Mito della caverna” di Platone ci viene in mente ascoltando “Nella notte”, canzone scritta diversi anni fa in cui, tra simmetriche scale musicali ascendenti e discendenti, si afferma l’attuale verità per cui “Quando giochi nella notte e non vedi la realtà/ Credi che sia quello il mondo, la tua unica città”. Anche qui è presente la ricerca del sé attraverso la ricerca di un senso: “Sono io o non so/ Se questo è solo un riflesso.../ Cercherò per un po’/ Di trovare almeno un senso”.

Nel brano “Favole” la realtà quotidiana sembra essere un vincolo, un ostacolo che ci impedisce di sognare e di accedere a “quel paradiso che chiami follia”. Forse ciò che comunemente chiamiamo “follia” è invece un modo di resistere all’omologazione e di mantenere la propria identità in un mondo che ci costringe a essere tutti uguali: “E tu non ti spieghi perché sei diverso,/ Ci vuole coraggio per esser te stesso”.

La difficile ricerca della propria identità, compiuta attraverso le domande-guida sulla profonda essenza del sé, è presente anche nella canzone intitolata “IP” (che forse sta per “internet protocol”, cioè un insieme di caratteristiche proprie, solo nostre, che ci definiscono il luogo preciso in “rete” e ci contraddistinguono dagli altri). Il ritornello comincia con le parole: “Non ho mai chiesto un mondo migliore,/ Vorrei soltanto che NON MI CAMBIASSE MAI”, il che probabilmente può essere interpretato come un’incertezza per quanto riguarda la coerenza del sé o come un timore che la propria anima possa essere cambiata sotto la pressione del mondo esterno, fino a non riconoscersi più.

A livello strettamente musicale, è sorprendente in questo brano l’intreccio melodico realizzato con il synth (molto anni ‘80), che all’inizio si sente poco, in quanto coperto dai suoni delle chitarre e della voce, e che alla fine della canzone rimane solo in compagnia delle percussioni (di Ludovico Antiga), sentendosi con chiarezza… Chissà se questa melodia rappresenta proprio “l’IP” personale che prima s’intravvede timidamente e poi viene finalmente trovato?

Il tema strumentale presente nel brano “IP” viene ripreso con lievi modifiche nella più recente “Eri tu”, una power ballad in cui già dal titolo possiamo capire che si tratta della nostalgia per un “tu” molto importante, che è andato via e che si vorrebbe ancora accanto. È poco chiaro però per quale tipo di “tu” l’autore provi nostalgia: per la propria madre quando si era piccoli, per l’Universo (o per il Creatore) quando ancora non ci si era distaccati, per una persona con la quale si avevano rapporti erotici, oppure per il proprio ego quando ancora non si era “allontanato” da noi…?

Probabilmente non importa, ogni ascoltatore può interpretare il testo secondo le proprie esperienze, perché comunque il sentimento di nostalgia è sempre lo stesso e non cambia a seconda dell’oggetto.

È interessante che anche qui si fa riferimento allo spegnimento della luce, come avviene in “Lasciatemi stare” o in altre canzoni dell’album in cui si parla del non poter più vedere con chiarezza… La vista si oscura perché non c’è più una guida o un senso del sé.

Un pallido raggio di luce si sente nelle canzoni “Bellissimo disastro” e “Il disordine dei mille perché”. La frase “Se non vincerai, sarai per sempre un bellissimo disastro” ricorda forse una voce critica e autoritaria appartenente al passato… Ma il nostro “guerriero del futuro” riesce a non farsi abbattere dalla suggestione psicologica indotta da questa cattiva voce e ci assicura che alla fine scopriremo di essere vincitori, che il nostro mondo è “migliore di questo” e che la nostra luce risieda nella continua ricerca delle cause e delle finalità; il “disordine” è probabilmente una metafora dello spirito sempre vivo che non si accontenta delle risposte facili e prefissate dagli altri.

Il sole irrompe pienamente in “Questa storia la scrivo io”, brano dal potente spirito rock le cui strofe richiamano alla memoria lo stile dei Rush; un vero e proprio inno a noi stessi, da rievocare in mente nei momenti d’insicurezza: “Ehi!/ Coraggio, non abbatterti!/ Ehi!/ Vai fuori e stupiscili!/ Ehi!/ Io non credo più in nessun dio,/ Questa storia la scrivo io”. La parola “Dio” forse si dovrebbe scrivere con la “d” minuscola, in quanto sembra si riferisca ai piccoli “dei” terreni della vita quotidiana, a tutte quelle persone prepotenti e manipolatrici, in realtà dei deboli che cercano di imporsi sulle vite altrui per illudersi di essere forti.

E come non notare “Resterò”…? Le strofe della canzone puntualizzano l’attualissima necessità di un po’ di tempo per vivere e di qualcosa in cui credere, mentre il ritornello – come in una sorta di “Let it be” – ci assicura del fatto che non saremo mai abbandonati e che quella presenza così importante (probabilmente quella per cui si prova nostalgia in “Eri tu”) in realtà ci sarà per sempre: “Sono qua,/ Sono qua,/ Sono qua e resterò./ Non aver paura (Non temer la notte),/ Ci sarò!”. (Magda Vasilescu)