EL KHAT "Mute"
(2024 )
Correva l'anno 2022: ve lo ricordate il disco degli El Khat? Ve lo ricordo io, a questo link: http://www.musicmap.it/recdischi/ordinaperr.asp?id=9151. Ora sono tornati, per concederci un altro viaggio nella psichedelia yemenita, col nuovo album “Mute”, uscito per quella che ormai è una delle mie etichette preferite, la Glitterbeat Records. Lo ripeto a ogni occasione, lo ripeto anche stavolta: la filosofia della Glitterbeat è quella di andare in giro per il mondo a recuperare sonorità folk e tradizionali, lanciandole però nella modernità, quindi riattualizzandole. Non ci si trova mai di fronte a una ricerca accademica “scolastica”, che di solito viene ascoltata solo da studenti universitari: le proposte sono valide anche per il mercato... che siete voi, lettori e ascoltatori!
Brìghde Chaimbeul dalla Scozia, Faizal Mostrixx dall'Uganda, Lenhart Tapes dalla Serbia, sono solo alcuni dei tanti artisti che ho avuto la fortuna di scoprire su Music Map, proprio grazie a questa scuderia. No, la Glitterbeat non mi sta pagando per parlarne così: è un sincero ringraziamento, per arricchire le mie orecchie in questo modo. Ed ora, immergiamoci nel nuovo disco degli El Khat.
La formula sostanzialmente resta invariata dall'album di due anni fa. Il gruppo, capitanato da Eyal el Wahab, struttura i propri brani sulle melodie cantate, letteralmente circondate dal resto. E il resto cos'è? Tastiere, fiati, chitarre elettriche, e soprattutto le percussioni: oggetti costruiti dallo stesso el Wahab con materiali di recupero. Legno, metallo e plastica. Anche se le melodie cantate sono centrali nella costruzione delle musiche, più volte le voci tacciono, lasciandoci da soli col flusso strumentale, come accade in “Almania”. Come nel disco precedente, anche stavolta le scale utilizzate comprendono spesso e volentieri i quarti di tono (esclusi dalle scale occidentali).
I ritmi a volte sono sfuggenti, sebbene siano ben dritti. Mi riferisco ad esempio a “Zafa” e “Ward”, i cui battiti alle percussioni sembrano in anticipo o in ritardo, anche rispetto ad un levare. Eppure non vanno “fuori tempo”, è solo che suonano a volte più “avanti”, a volte più “indietro”, una finezza che alcuni musicisti virtuosi più volte mi hanno spiegato, ma che io ancora non so tradurvi a parole in maniera comprensibile. La “senti”, you feel it...
L'elaborazione elettronica a volte ha la meglio, come nel finale ipersaturo di “Zafa – Talataam”, o in “DJ Saadia”, ma per la maggior parte del tempo la performance è acustica. Nel brano di chiusura “Intissar” compaiono tutti gli strumenti comparsi nel corso dell'album, anche gli archi. Il brano finisce intorno al minuto 5'48”, ma la traccia ne dura 8. Perché? Eccola lì, torna una pratica che non si fa da tempo: una ghost track!
Scusate se ora smetto di parlare di musica in senso tecnico, ma lo stesso Eyal el Wahab mi invita a farlo. Questo disco è sì un viaggio psichedelico, ma non vuole essere escapista. La fuga in un'altra dimensione tramite suoni serve a marcare, a sottolineare la differenza tra questa realtà ideale e quella concreta. Perché il disco si chiama “Mute”?
El Wahab fa parte degli arabi ebrei in Yemen, e condanna la violenza a Gaza. È difficile per lui ormai parlarne con i conoscenti, perché la propaganda li acceca. Divide et impera, come al solito, ora più che mai in maniera spudorata. Nonostante siano evidenti gli interessi economici e politici nel prolungare la guerra, ancora ci vogliono raccontare la storiella che il problema sia religioso, tra ebrei e musulmani, quando esistono islamici israeliani, ed ebrei palestinesi.
El Wahab ha chiamato il disco “Mute” perché è un verbo sia attivo che passivo: vuol dire sia tacere, che mettere a tacere. E non vuole essere messo a tacere per paura d'essere considerato “contro” la sua stessa cerchia di persone, ricordando, ancora una volta tramite la musica, che siamo tutti interconnessi in una stessa specie umana. Come canta Peter Gabriel: “I'm just a part of everything”. (Gilberto Ongaro)