ANGELO SAVA "Una piccola morte"
(2024 )
Angelo Sava è una figura quasi mitologica, inquilino abusivo di un piccolo mondo lontano tra DIY e autoanalisi. Spirito inquieto ed inafferrabile, vive la musica come sfogo, terapia, occasione di redenzione: a volte vanificata, talora colta e messa a frutto.
Dagli esordi aspri e tossici di “Addio Pimpa” alle nove tracce sibilline – sempre autoprodotte – di “Una Piccola Morte” il viaggio è stato tortuoso, accidentato, spinoso: la discesa nel cuore di tenebra di “Miasmi”, l’abisso di “Postumo”, poi la scomparsa dalle scene a settembre 2018, il ritiro in campagna in solitudine, il rientro in sordina tre anni più tardi con quell’ipotesi di resurrezione che fu “Paura.”, ancora in bilico sul baratro, ma almeno con la testa finalmente fuori dalle sabbie mobili.
Profondamente refrattario alle regole del mercato, sinceramente indifferente ad orpelli inservibili quali strofa/ritornello/bridge, impermeabile a concetti astrusi quali appeal o spendibilità del prodotto discografico, dopo altri tre anni Angelo ritorna con un’espressività più conciliante, la stessa che innervava “Paura.”, ma con una curiosa attenzione all’incedere delle canzoni, piccoli rebus irrisolti, capaci tuttavia di concedersi spiragli di luce e vie d’uscita, scappatoie ingannevoli, illusori fili d’Arianna in un labirinto comunque enorme.
Da un punto di vista meramente formale, è un elettropop in minore ritmato e triste, appena sporcato qua e là da qualche graffio della chitarra o addolcito dalla voce di Annalisa Vetrugno in sottofondo. Ricorda Niccolò Contessa, ma col corollario di un’infinita, irrisolvibile amarezza afflitta che sfocia in vane invocazioni al nulla, condensate in testi brevi e visionari, infarciti di particolari, dettagli, riferimenti ciechi, inezie apparentemente insignificanti, indizi sparsi ad arte per risolvere un enigma che tale resterà.
Versi criptici ed ermetici compongono un ritratto a tinte fosche di un io tormentato, pacificato per quanto possibile, sceso a patti con alcuni dei suoi demoni, ma segnato indelebilmente da cicatrici che ne solcano l’anima e ne indirizzano la scrittura. Il risultato è un disco drammaticamente ed imprevedibilmente bello; godibile, addirittura, sebbene ancora intriso dell’ineludibile dolore che reca in dote e che fa di questa musica pulsante e depressa un ibrido curiosamente coinvolgente, compendio allucinato di immagini sfuocate a passo di danza.
Sono canzoni brillanti, perfino gradevoli, con un’eco di Riccardo Sinigallia (sic!) in “Nido Di Alghe”, sentori di Giacomo Giunchedi (Cadori, Sacrobosco) nell’elettronica ingentilita della title-track, svolte improvvise nel battito che scuote “Odora Come Gomgel”, cavalcate wave incalzanti nelle pieghe impreviste di “Sciarada “ e “Power Nap”; nessun problema a portare oltre i sette minuti “Mi Fa Male Avvicinarmi Alla Tua Età”, infilata in una lunga coda avulsa dal tema, sfuggente ed evocativa prima della scossa che ne ravviva il finale; zero esitazioni di fronte al refrain di “La Droga è Fatta Così”, che sarebbe quasi un pezzo da classifica se non flirtasse scopertamente con guai reali e sporcizia varia.
Ora come allora, ad Angelo – sono sicuro – non importa molto di piacere alla gente: è alla ricerca – costante, indefessa, tra alti e bassi, come tutti noi – di un approdo, un appiglio, o di una pagana assoluzione che renda meno impervio il cammino. Verso quale tappa del percorso, forse lui solo lo sa.
Appeso a un filo che non si è rotto/sto meglio.
À bientôt. (Manuel Maverna)