DAVID GILMOUR "Luck and strange"
(2024 )
La quarta età avanza, la vita è breve, il viso si fa scavato, la voce non è più quella degli anni d'oro quando si era la prima band del pianeta.
Come reagire ai tempi bui che viviamo, alle lacerazioni che non si sanano? Un po' di manierismo è nel Dna dei Pink Floyd e della loro anima strumentale, ovvero il duo Gilmour-Wright. Passato a miglior vita il secondo, il primo lo celebra mandando per il mondo un frammento delle "barn jam" domestiche del 2007 che sembra preso dalle prove di "Dogs" del 1977, ci mette insieme un po' di testi scritti dalla moglie Polly Samson e la vocina della figlia Romany (poteva chiamare Kate Bush ma vabbè, si vede che Polly è gelosa).
Ed ecco il quinto disco del chitarrista più meritevole al mondo, erede di Hendrix e di tanti altri, unico per tecnica e lirismo cui non serve un album solista in più per dichiarare lo status di preminenza. Ma tant'è. Questo "Luck and strange", il primo da 2015 dopo il mediocre "Rattle that lock", va preso per quello che è, una reazione ai dolori del tempo, al tempo che passa, un ripiegamento ombelicale sulla famiglia e i suoi valori, voto 10 per chi come i fan più appassionati non fa a meno di nessuna nota del beniamino, voto 6 stiracchiato per chi lo guarda con il giusto distacco critico.
La sensazione è simile a quella di chi come me ha visto "Alien romulus" e non ha trattenuto gli sbadigli, a volte sussultando per la faciloneria del trattamento. Un franchise del genere meritava, complice anche Ridley Scott, ben altra fine. Almeno a livello delle due precedenti prove "Prometheus" e "Covenant" che ora appaiono opere d'autore. Ecco, con il disco di Gilmour si ha la stessa sensazione: i soliti "ping" di ''Echoes'' di 53 anni fa, i riff di chitarra che ti aspetteresti dietro l'angolo, nessun guizzo, nessuna originalità, e la memoria corre all'ultimo brano firmato da Gilmour con l'ora odiato Waters, "Not now John", dove la chitarra solista fece faville pur sapendo di essere sequestrata dall'ego smisurato del bassista.
Purtroppo, e lo dico con immenso rispetto da floydiano da oltre 45 anni, Gilmour (che ho visto live agli Arcimboldi per il tour di ''On an island'' quando, incredibile dictu, prese una stecca) non è Peter Gabriel, e non lo è neanche il putiniano e antisemita Waters se vogliamo dirla tutta. Funzionavano bene insieme finché hanno potuto, dopodiché i dischi solisti hanno documentato quanto la magia sia svanita.
A parte l'originario "David Gilmour" del 1978, robusto esordio solista a cavallo tra "Animals" e "The Wall", solo "Amused to death" di Waters del 1992 (non la sua riedizione, mi raccomando) regge ancora, pur nei suoi limiti, e ogni volta che lo ascolto immagino cosa avrebbe fatto la chitarra di David al posto o insieme a quella di Jeff Beck.
Qualcuno ha rimarcato che questo disco è uscito il 6 settembre, giorno del compleanno di Roger Waters, proprio mentre si sono fatte insistenti le voci di vendita dell'intero pacchetto dei diritti delle canzoni dei Floyd per 500 milioni di euro alla Sony. L'unica cosa che possiamo auspicare - dato che il brano più pregevole di questo quinto disco rimane la barn jam originaria di “Luck and Strange” - è che saltino fuori dal bigoncio altri inediti e live ripuliti. Altrimenti prevarrà l'intelligenza artificiale, con cui potremo costrurire dischi dei Floyd a piacimento, prodotti magari da Rick Rubin o Brian Eno, con i Metallica o Rita Pavone come special guest.
Rimane la facoltà di vederselo dal vivo, il senile David con tutta la famiglia riunita, per i concerti di quella che potrebbe essere l'ultima tournée prima di appendere la chitarra al chiodo, la stessa che ora ci regala echi e riff già sentiti, strizzatine d'occhi al passato, e solo qua e là qualche spunto che, come in ''Alien romulus'', andava gestito in altro modo. Grazie comunque, è stato bello.
Da ascoltare in cuffia e con buon impianto, anche con funzione di tester. (Lorenzo Morandotti)