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PROFANATHORY  "Profanathory"
   (2024 )

Questo disco è una concreta dimostrazione che l’underground italiano, ed in particolare quello veneto, è in ottima salute, creando musiche variegate, a volte impensabili. Sicuramente sono spesso frutto di ascolti, di tanti stili che, senza volerlo direttamente, hanno stimolato la creatività e la necessità di costruire musica, concatenare idee tra musicisti. Una condizione che definirei ideale, che spesso spiana gli ostacoli per un possibile percorso e che niente ha a che fare con quello di una cover band.

Lo stile dei Profanathory va cercato nel deserto, pensando in particolare al Palm Desert, in California, dove verso la fine degli anni ‘80 molte band si sono ispirarate per creare un suono che poi si dimostrò unico e distinguibile. Ne prendiamo una su tutte come esempio: i Kyuss, sicuramente tra i pionieri.

Se vogliamo chiamiamolo “stoner”, ovvero un suono “drogato” grazie al quale, si mette in moto l’immaginazione di chi lo ascolta. Un trip travolgente in un’infinità di colori, passando sopra enormi distese, sentendo bruciare il fuoco... Percezioni psichedeliche che facilitano l’introspezione, quella che riporta al confronto con le forze della natura.

Il fascino minaccioso del deserto, il paesaggio duro e rude che ne delinea l’orizzonte, finiscono sorprendentemente per emergere così da un disco tutto italiano. Come è stato per i Kyuss, lo stoner doom che esce fuori dagli amplificatori della band trevigiana è sporco, diretto ed è fastidioso come il Santana, il vento secco che accarezza e brucia la California.

Profanathory non è una band composta da ragazzi alle prime armi, ma da tre amici che hanno scoperto di avere un qualcosa in comune, pur essendo musicisti con un certo background. Comprensibile la conseguente voglia di formare una band che potesse in qualche maniera interpretare alcuni brani tratti dagli archivi delle loro passioni, alcune delle quali radicate negli anni ’70. Dopo poco tempo la consapevolezza di aver “profanato” qualcosa di sacro, reinterpretando a loro piacimento qualche classico del rock, facendo contemporaneamente scattare la molla che li ha portati a trovare un loro suono.

L’impresa dei Profanathory, l’atmosfera che si crea liberando il loro suono, è quindi racchiusa in questo album d’esordio. Sento di lasciar loro il merito di riportare chi si approccia con curiosità alla loro musica, a quei paesaggi cari ai fan del cosiddetto “Desert Sound”.

Se si vuole trovare un briciolo di italianità, bisognerà vivere l’esperienza del concerto. Con molta probabilità, ci si accorgerà che ogni brano riflette un’esperienza di vita, un’immagine, un ricordo o comunque un pensiero ai quali la band ha pensato a loro modo di dar voce. (Mauro Furlan)