recensioni dischi
   torna all'elenco


THE BELLRAYS  "Heavy steady go!"
   (2024 )

La cosa entusiasmante dei BellRays, quartetto californiano originario di Riverside, nato nel lontanissimo 1990 in cui sostenni l’esame di maturità, è che non sai bene come catalogarli, perché nel loro pastiche mosso e spinto frullano sì con piglio dinamico tutto quello che già conosci e ben riconosci, ma ti impediscono di definirli: mischiano, reimpastano, interpretano alla loro maniera la musica più antica che ci sia, con foga bruciante ed inesauribile verve.

Fondati dalla cantante afroamericana Lisa Kekaula e dal chitarrista Bob Vennum, sono giunti fino a noi con immutata foga ed assolutamente incuranti di mode e tendenze, alfieri e forieri di una musica veemente ed incalzante che picchia come ai bei glory days che furono, quasi negli ultimi tre decenni il tempo si fosse fermato.

Ora, così sui due piedi: è caro vecchio r’n’r, aspro e veloce, ma cantato dalla divina Lisa – della quale ho specificato le origini etniche per suggerirne il timbro vocale - con anima soul. Intendiamoci: soul distorto e imbastardito, che ben poco fa pensare al soul-as-we-know-it, se non nelle tinte così amabilmente roots del suo crooning frontale e diretto. Nella cartella stampa, mi ha fatto sorridere la definizione della band, partorita da chissà quale penna spiazzata, come “Tina Turner frontwoman degli AC/DC” o “i Motörhead incontrano Aretha Franklin”: in fondo, è azzeccata.

A sei anni dal precedente “Punk Funk Rock Soul Vol.2” e a ben quattordici da “Black Lightning”, su etichetta Sweet Gee Records spunta questo graditissimo “Heavy Steady Go!”, dodici tracce per quaranta minuti tesi e serrati: convulsi, compatti, martellanti. Pezzi squadrati da due, tre, quattro minuti al massimo, privi di fronzoli o arzigogoli, mitigano la violenza dell’approccio grazie ad una scoperta attenzione al groove ed alla voce di Lisa, che si inerpica, strepita, attacca; viscerale e calda, virtuosa e cattivella, si prende la scena e indirizza il mood, lasciando la band a macinare la sua focosa, muscolare miscela di hard blues virato black (“All The Rage”, quasi una “Nutbush City Limits” fatta dagli X).

In un fragoroso magma elettrico, punzecchiato da riff ruvidi e brevi assoli secchi ed efficaci, vanno in scena brani cadenzati ed essenziali, impetuosi e dritti al punto: tra quattro quarti indemoniati (“Hard Drive”), suggestioni doorsiane (“Snakes”) e boogie frenetici (“One More Night”), spiccano il concitato crescendo di una “California” che sembra uscire dalla colonna sonora di “Pulp Fiction”, le rimembranze stoogesiane di “C’mon”, il passo à la Creedence di “Down On My Knees”, lo slow di “True Love Travels on a Gravel Road”, che chiude riportando tutto a casa con una ritrovata, inattesa grazia sorniona.

Saranno in Italia per un’unica data, il prossimo 3 novembre al Joshua Blues Club di Albate, vicino a Como: chi può, non se li perda, siete avvisati. (Manuel Maverna)