RADIODERVISH "Cuore meridiano"
(2024 )
“Il nostro Cuore meridiano contro le guerre e i genocidi del presente” è il titolo completo del nuovo disco della band italo-palestinese Radiodervish, uscito sotto l’etichetta Cosmasola Edizioni Musicali e disponibile in formato cd (dal 28 giugno) e in vinile (dal 28 luglio).
L’album comprende quattro brani-omaggio (alla band progressive Area e ai grandi autori mediterranei Georges Moustaki, Franco Battiato e Idir), nonché l’inedito “Giorni senza memoria”, e rappresenta un vero e proprio manifesto per la pace e per il rispetto dell’identità e della dignità di ogni popolo.
Insieme a Nabil Bey Salameh e a Michele Lobaccaro – fondatori del gruppo fin dai suoi albori (1988), quando nacque sotto il nome Al Darawish, cioè “gente semplice” – ai raffinati arrangiamenti strumentali hanno contribuito Alessandro Pipino (pianoforte, tastiere, synth, vocoder, fisarmonica, melodica, flauto, kalimba, table tubes, chitarra classica, chitarra elettrica, back vocals), Pippo Ark D’Ambrosio (batteria, percussioni), Andrea Senatore (synth, Electronics), Adolfo La Volpe (chitarre elettriche) e Massimo Zamboni dei CCCP (poi CSI) che suona le chitarre elettriche nel brano “Giorni senza memoria”.
Un importante ruolo nella realizzazione del primo brano del disco – rivisitazione di “Luglio, agosto, settembre (nero)” degli Area – l’ha avuto il coro di voci bianche Pentawhite diretto dal Maestro Marco Giuliani.
In perfetta armonia con lo sfondo strumentale, i testi delle canzoni ci vengono presentati quasi come una confessione melodica dalla voce calda e avvolgente di Nabil Bey Salameh, cantautore, docente di Etnomusicologia presso il Conservatorio di Lecce ed ex giornalista corrispondente di Al Jazeera. Nabil è nato 62 anni fa in Libano da genitori palestinesi e, come lui stesso racconta a Giuseppe Attardi in un’intervista rilasciata per Segnali Sonori il 29/06/2024, i suoi “sono originari di Giaffa e nel 1948 son dovuti fuggire, così come son dovuti scappare 750 mila altri palestinesi a causa della pulizia etnica che i coloni sionisti hanno fatto”.
Sempre nella stessa intervista, relativamente al fatto che la situazione a Gaza sia rimasta invariata dal 1993 (quando è stato pubblicato il primo inedito degli Al Darawish, intitolato “Gaza”), Nabil esprime il suo punto di vista, uguale al nostro e a quello di tante altre persone: “C’è una volontà che ha impedito che in questi trent’anni ci fosse una vera giustizia, una vera restituzione dei diritti al popolo palestinese che è stato vittima di una vera e propria operazione di furto di identità, di terra, di diritti, di vita. E quando manca la giustizia, la pace diventa soltanto un termine. Chi in questi trent’anni poteva cambiare le sorti del mondo, soprattutto di quella zona del Medio Oriente, non si è assolutamente posto nell’ottica di stabilire una pace basata sui diritti e sulla giustizia. Anzi, ha favorito gli insediamenti, ha favorito tutta una serie di elementi, di soprusi, che hanno minato qualsiasi base per stabilire una pace giusta fra due popoli che devono vivere uno al fianco dell’altro”.
Il dolore causato dall’umiliazione che la sua famiglia ha dovuto subire nel ‘48 e che il suo popolo subisce da tanti decenni porta Nabil a interrogarsi – come (pochi) altri intellettuali – sulle vere cause della violenza nel mondo. Le ricerche sue e della sua band trovano possibili risposte nel libro-testamento del sociologo pugliese Franco Cassano, “Pensiero meridiano” (Laterza editore), dal quale prendono spunto per la realizzazione del presente disco. Tale pensiero viene definito da Cassano così: “Pensiero meridiano è quel pensiero che si inizia a sentir dentro laddove inizia il mare, quando la riva interrompe gli integrismi della terra (in primis quello dell’economia e dello sviluppo), quando si scopre che il confine non è un luogo dove il mondo finisce, ma quello dove i diversi si toccano e la partita del rapporto con l’altro diventa difficile e vera”.
Si può dedurre, quindi, che le azioni umane organizzate per accrescere illimitatamente la ricchezza materiale e il potere economico fanno venir meno l’umanità, cioè il rapporto “difficile e vero” con il prossimo.
Come simbolicamente accade nel disegno della bambina presente nel video iniziale di “Giorni senza memoria” (2019), il pensiero meridiano espresso da Franco Cassano riecheggia nel cuore dei Radiodervish, che cercano di risvegliare i suoi battiti attraverso cinque canzoni che possano nutrire e mantenere vivo il Cuore meridiano.
Per il Quotidiano di Bari del 15/06/2024, i Radiodervish riferiscono: “Possiamo constatare come negli anni ‘60, ‘70 e ‘80 del secolo scorso, numerosi artisti si siano mostrati sensibili alle sottili corrispondenze tra i popoli del Mediterraneo. Un’epoca in cui il battito del Cuore meridiano era udibile, ma che, purtroppo, è stato successivamente soffocato e annacquato in un innocuo folklore dall’egemonia culturale del neoliberismo affermatosi dagli anni ‘90 in poi. Pertanto, Battiato, gli Area, Moustaki e Idir emergono come avanguardia significativa di un mondo musicale e intellettuale che merita una riscoperta e all’interno del quale questi artisti, con la loro sensibilità, possono continuare in tempi di conflitto a offrire un contributo conoscitivo ed emozionale di inestimabile valore”.
A sostegno di ciò, possiamo aggiungere il fatto che anche nei Paesi che fino al 1990 facevano parte del “blocco socialista” – per esempio la Romania, dove negli anni ‘70 è nata e cresciuta la sottoscritta – a partire dal 1990 i rispettivi popoli (e implicitamente gli individui che li compongono) hanno sentito in modo piuttosto brusco sbiadire la propria identità culturale, spirituale e affettiva sotto la pressione di una “forza invisibile”, che ha mirato a sostituire tale identità con una esclusivamente economica, da lavoratori e consumatori poveri. Di conseguenza, anche diverse persone del nostro popolo hanno cercato di mantenere vivo il proprio Cuore individuale e collettivo, stringendo i contatti con i popoli percepiti come fratelli dal punto di vista culturale, in primo luogo con gli italiani.
Il senso profondo del progetto dei Radiodervish non si riduce dunque all’area mediterranea, ma è generalizzabile a una realtà molto più estesa, forse mondiale, così come la causa del male è probabilmente la stessa per tutti.
Ma torniamo alle canzoni, cinque veri gioielli della musica e della poesia nati a partire dagli anni ‘60. La prima in ordine cronologico è “Le temps de vivre” (1966) di Georges Moustaki (all’anagrafe Giuseppe Mustacchi), carismatica figura del cantautorato mediterraneo. Nato in Egitto da genitori ebrei di origine italo-greca e naturalizzato francese, egli incarnava benissimo l’ideale di armonia tra i popoli che condividono un Cuore meridiano. La canzone, la cui delicatezza e poesia sono state lasciate intatte nella cover dei Radiodervish, esprime chiaramente il desiderio di libertà di espressione del sé e il suo messaggio può riguardare anche i popoli, non soltanto gli individui: “Nous prendrons le temps de vivre/ D’être libre, mon amour”.
Però si dovrebbe forse essere cauti nell’interpretare, oggigiorno, il significato dei versi che presentano la mancanza di progetti, di abitudini e di limiti come un fatto positivo in assoluto… perché, se negli anni ‘60, il “Sans projets et sans habitudes” e il “Tout est possible, tout est permis” rappresentavano il grido puro e innocente di una gioventù soffocata dalle troppe repressioni e dagli echi ancora molto forti del fascismo di Hitler, adesso, a distanza di sessant’anni, ci accorgiamo che tali parole hanno assunto anche delle sfumature poco sane, come quella della precarietà lavorativa e affettiva (mancanza di progetto =
precarietà), rispettivamente quella dell’abuso e della mancanza di riguardo nei confronti di sé e dell’altro (tutto è permesso = nulla è proibito, quindi neanche ciò che fa del male).
Andando avanti nel tempo arriviamo agli anni ‘70, dai quali i Radiodervish hanno selezionato “Luglio, agosto, settembre (nero)”, brano di grande forza evocativa scritto nel 1973 dagli Area. Questa canzone – come affermato da Demetrio Stratos – è stata ostracizzata dalle radio per via del titolo che rimandava al gruppo terrorista Settembre Nero, ma in realtà racchiude un messaggio di pace e contro la guerra. I Radiodervish trasformano la versione originale di questo classico del rock progressive in un pezzo dalle caratteristiche musicali proprie, forse più pacato, ma senza perdere l’intensità emotiva scaturita dagli arrangiamenti ritmico-melodici e soprattutto dalle parti parlate in una lingua semitica, presenti in entrambe le versioni, ma con parole diverse (i cui significati sarebbe quasi d’obbligo cercare di capire e di approfondire).
I versi “Non è colpa mia se la tua realtà/ mi costringe a fare guerra all’omertà”, “Canta la mia gente che non vuol morire” e “Giocare col mondo facendolo a pezzi” (ripetuto nella versione dei Radiodervish dal coro di voci bianche come una filastrocca) non hanno bisogno di spiegazioni e purtroppo sembrano scritti oggi. Relativamente a questa rivisitazione del brano, lo stesso Patrizio Fariselli, fondatore degli Area, ha detto: “Finalmente ascolto una versione personale e coraggiosa del nostro pezzo”.
Dalla musica degli anni ‘80 abbiamo il piacere di ascoltare una versione della canzone di Franco Battiato “La stagione dell’amore” (1983). Notiamo che il ritmo, la melodia e l’atmosfera caratteristica degli anni ‘80 non cambiano quasi per niente rispetto all’originale, anzi, si potrebbe dire che anche negli altri brani del presente disco dei Radiodervish si sente uno stile molto somigliante a questa canzone di Battiato. La grande amicizia artistica e interpersonale tra il Maestro di Milo e i membri della band ha lasciato il segno anche nella musica dei Radiodervish. Inoltre il riferimento mistico al derviscio ruotante è presente sia nel nome della band (anche nel titolo di una loro canzone, quando si chiamavano Al Darawish), che nella canzone “Voglio vederti danzare” di Battiato.
“La stagione dell’amore”, pur potendo sembrare una canzoncina da ballare nelle discoteche di quarant’anni fa, in realtà ha un testo profondo relativo ai desideri che “non invecchiano quasi mai con l’età”, all’entusiasmo che fa “pulsare il cuore”, alle “nuove possibilità per conoscersi” ( = la conoscenza del sé, ma anche reciproca), alle occasioni perse che non vanno rimpiante, agli orizzonti perduti che non ritornano mai… una sintesi, questa, dell’amore per la vita, sempre meno presente nelle manifestazioni artistiche di oggi.
Un salto di vent’anni in avanti ci porta a “Pourquoi cette pluie?” (2002) del cantautore berbero Idir, canzone di una bellezza celestiale, a cui i Radiodervish aggiungono profondità acustica per mezzo degli strumenti elettronici e una sfumatura rock creata con le percussioni e con le chitarre elettriche, rendendola più accessibile al grande pubblico. Il testo, scritto dall’autore ebreo di origine francese Jean-Jacques Goldman, fa riferimento a un diluvio avvenuto durante la Guerra Civile svoltasi in Algeria dal 1992 fino al 2002.
Le parole sono tante e sono ricche di senso e di emozione… Forse
dovrebbero essere tradotte in tutte le lingue del mondo, per far conoscere a tutti questa canzone così attuale e necessaria. Facendo un umile tentativo di riassunto, possiamo dire che l’autore del testo si domanda come mai questa pioggia è venuta all’improvviso in una stagione in cui normalmente non piove; se questa pioggia è stata mandata dal cielo per venire incontro ai bisogni della terra e delle persone, oppure ha un significato punitivo…
Quale sarà “le trait d’union” (cioè il nesso tra la pioggia e la vita degli uomini)…? Alla fine, l’autore incontra nel suo cammino una mendicante i cui marito e figli sono andati via e non sono più tornati, che gli dà la risposta: “cette pluie, tu vois,/ Ce sont des pleurs pour les yeux des hommes./ C’est pour vous donner des larmes,/ Depuis trop longtemps elles ont séché./ Les hommes n’oublient pas les armes/ Quand ils ne savent plus pleurer”
(“Questa pioggia, vedi,/ Sono dei pianti per gli occhi degli uomini./ È per donarvi delle lacrime,/ (Che) da troppo tempo si sono asciugate./ Gli uomini non dimenticano le armi/ Quando non sanno più piangere”),
Il disco si conclude con una versione in chiave rock dell’inedito “Giorni senza memoria”, uscito inizialmente con video nel 2019. Le parole del brano invitano – oppure obbligano, a seconda della
coscienza di ogni ascoltatore – a riflettere sulle vittime della Shoah, per le quali si ha e si deve avere sempre il dovuto rispetto, ma anche sui tanti genocidi e crimini contro l’umanità per i quali non esistono ancora dei “giorni della memoria” e che, di conseguenza, rischiano di essere dimenticati. All’inizio si fa giustamente riferimento ai lager nazisti e veniamo incontro al discorso ricordando il fatto che nei lager, oltre agli ebrei, sono state sacrificate non meno brutalmente diverse altre popolazioni e categorie sociali: persone di origine slava in generale, prigionieri di guerra sovietici, persone di etnia romaní, persone di origine africana, persone con disabilità, persone con orientamento omosessuale, testimoni di Geova ecc.
La canzone prosegue riferendosi alle vittime dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, vittime causate dalla volontà degli Stati Uniti d’America, l’unica nazione che ha effettivamente usato la
bomba atomica. Poi si accenna al massacro degli armeni da parte dell’Impero Ottomano tra il 1915 e il 1916, in cui persero la vita circa 1,5 milioni di persone, continuando col puntare il dito
sull’Europa che “per la sua ricchezza rese schiavi i fratelli africani”, sui “khmer rossi” (seguaci del Partito Comunista di Kampuchea, che tra il 1975 e il 1979 condussero il genocidio cambogiano, in cui furono uccise da 1,5 a 3 milioni persone), sulle torture e le condanne a morte messe in atto nei processi inquisitori indetti dalla Chiesa Cattolica fino al Seicento, sui nativi americani decimati nei “massacri per il nuovo mondo” (massacri di cui Nabil dice, sempre nella già citata intervista per Segnali Sonori, che sono stati trasformati “in un genere cinematografico western”).
Infine il cantautore palestinese ricorda gli accadimenti che riguardano da vicino lui e tutti noi, in tal modo sottolineando il fatto che la violenza nel mondo non sia un concetto teorico, bensì una realtà concreta e urgente: “Poi rivedo mio padre fuggire/ dalla furia razzista di Giaffa,/ interi villaggi distrutti/ nel delirio di una terra promessa”. Il ritornello di “Giorni senza memoria”, praticamente l’ultimo gruppo di parole che sentiamo sul
disco, porta con sé una domanda neanche tanto retorica rivolta a tutti noi (“Chi potrà risvegliare la mia umanità?”) e un messaggio di speranza: “Per leggi incomprensibili,/ dopo il buio, sai, nascerà la luce”… Le leggi incomprensibili del Cuore. (Magda Vasilescu)