recensioni dischi
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KREKY  "Time runs out"
   (2024 )

Aperto dal robusto rock da FM della title-track, bella sberla a metà strada tra John Mellencamp e i Counting Crows, “Time Runs Out”, su etichetta Romolo Dischi, è il nuovo album di Kreky, cantautore e musicista sardo attivo dal 2016, qui intento a sciorinare quaranta minuti spediti e agili di Americana in purezza, con verve cristallina, sincera urgenza e scioltezza da veterano.

Idee ben chiare e canzoni accattivanti nella loro provvida essenzialità segnano il perimetro di un album diretto ed efficace, sontuosamente interpretato ed arrangiato con stile ed eleganza, solidissimo compendio di brani compatti ed incalzanti, in linea con i gusti d’oltreoceano, ma non solo.

A prescindere da pick-up, Route 66, cappelli da cowboy e stereotipi assortiti, a noi che viviamo a Cinisello Balsamo, Casalecchio di Reno o Scerne di Pineto ben poco importa della location: qui abbiamo dieci pezzoni rigonfi di stelle & strisce da godersi tutti d’un fiato, dieci piccole perle per tutte le stagioni, manifesta emanazione di un gran bel talento e di una adesione spontanea ed autentica ad un songwriting immediato e riconoscibile.

Il mood, i suoni, il crooning pastoso e denso prendono vita e forma nell’impennata imperiosa del chorus di una “Safe Place” che piacerebbe a Eddie Vedder, nel rallentamento à la Ryan Bingham di “Friday”, nel ruvido r’n’r’ springsteeniano virato in minore di “Why Did You Call My Name”, nel crescendo palpitante di “I’m Not Here”. Non una nota fuori posto, nessuna ridondanza, forzatura, eccesso di confidenza, manierismo: al contrario, uno sfoggio di personalità non comune ad animare le trame roots di “Pua#3”, il passo sudista à la Lynyrd Skynyrd di “At This Rate”, la soave aria laid back di “Nail Me”, facce diverse della stessa medaglia, uno show a tratti entusiasmante che oscilla tra episodi tesi e roboanti ed oasi in cui riposare ad occhi chiusi, cullati dalla prossima ineffabile melodia sottotraccia.

Sull’irresistibile mid-tempo della conclusiva “Break The Spell”, che riecheggia Tom Petty con corollario di inevitabile nostalgia, ogni dubbio è fugato, il gioco è fatto, tutto è compiuto. Album confortevole come la coperta di Linus, si concede nudo, viscerale, schietto: sai cosa aspettarti, ed è esattamente ciò che avrai. Nella sua veste migliore, con il tacito assenso di modelli inarrivabili e numi tutelari, omaggiati con classe, slancio, ammirevole devozione. (Manuel Maverna)