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LUCA MACIACCHINI  "La farmacia potrebbe anche non esserci"
   (2024 )

Scrivere di questo disco non è affatto facile.

Più che altro, perché non è un disco facile. Inoltre, perché Luca Maciacchini non è un autore facile.

Cioè: l’apparenza inganna, eccome, ed il piglio agile, l’evidente brillantezza, il tono sagace farebbero propendere per un lavoro leggero, disimpegnato, fru-fru. Ma Luca Maciacchini, da un quarto di secolo artista poliedrico, attore teatrale e comparsa cinematografica, musicista, scrittore, produttore per radio e teatro, infine cantautore, ama mischiare i piani e mutare in celia il quotidiano battagliare che va in scena là fuori, dove – più che rose & fiori - sono spine & rovi.

Quinto album in una carriera sfaccettata e varia, spesa tra mille divagazioni ed altrettante affermazioni nei territori più disparati, “La farmacia potrebbe anche non esserci”, pubblicato per RadiciMusic Records, offre nove brani disincantati e briosi, alle prese sì con i mille volti del comune male di vivere, ma rivestiti di una pungente ironia a renderli digeribili.

Album che incessantemente diverte e bacchetta, vive sul contrasto tra temi densi e scherzosità mascherata, tra boutade birichine e riflessioni profonde, condotte sì sul filo della burla, ma con garbo ed eleganza. Viaggia vivace e spedito, ondeggiando con consumata nonchalance tra la verve dell’accoppiata folk di apertura (“Carta cambia” e “Derva!”, rimembranze di covid in zona rispettivamente Stefano Rosso e Davide Van De Sfroos) e l’intima morbidezza di episodi piacevolmente disallineati (“Non perdonare”, quasi Samuele Bersani), diviso in egual misura tra l’amaro spaccato sociale à la Angelo Branduardi di “A Ognuno…La Sua Famiglia” e il divertissement sbarazzino di “Si Bussa”, con l’ombra di Giorgio Gaber sullo sfondo.

Fra l’invettiva anti-social di “Commentate!” ed il blues di “Tasche Rare”, nobilitato da un testo intelligente e centrato, insolito come il tema che tratta, a prendersi la scena è il bozzetto agrodolce – desolato, in fondo, eppure ameno – de “Il Titolista”, piccolo colpo di genio macchiettistico che sarebbe piaciuto ad Enzo Jannacci, e che con la voce di Jannacci ho voluto immaginare mentre per l’ennesima volta la riascoltavo.

Come al riascolto invita ben volentieri tutto il disco, lavoro che sgrida, puntualizza e fustiga con occhio critico, ma rimane bonario nel suo tono assolutorio, mitigato da un’aria da vaudeville perfettamente calzante a questo giornaliero teatrino di piccola umanità, sulle cui assi scricchiolanti tutti – diceva quel tale - recitiamo una parte. (Manuel Maverna)