SOUTHLANDS "Still play'n"
(2024 )
A quarant'anni esatti (me lo ricordo bene il frusciare del cellophane da cui estrassi l'LP su una panchina in riva al lago di Como) dall'uscita di ''Born in the Usa'' (ma a me, scusate, piace soprattutto ''Nebraska''), fa piacere notare che, senza retorica ma con tanta onesta schiettezza, robusta come un buon whisky del Tennessee, c'è chi tiene alta e sventola la bandiera del bon ton a stelle e strisce.
Un bel modo, questo ascolto, per rispondere alla melassa musicale costruita in provetta che impera oggi e per tenere lontani i fantasmi che aleggiano sulle imminenti elezioni USA. Lo propugnano i Southlands, una band di radice padana che da oltre 20 anni mescola umori locali con “interferenze” dagli States mescidando (il nome del gruppo non è casuale) southern, blues e country, con striature che rimandano non solo al Boss ma anche ai Creedence Clearwater Revival.
Dei Southlands esce il nuovo album ''Still Play'n''' per I'etichetta Appaloosa Records. Musica da non consumare una botta e via ma da condividere, musica da lanciare a palla immaginando che, invece di Vimercate o del raccordo anulare o della fettuccia di Terracina (citazione da "Il sorpasso" di Risi) o della Salerno Reggio Calabria, stiate fuggendo come Thelma e Louise dalla routine quotidiana o scorrendo con una fiammante Coupe De Ville o una schietta muscle car made in Usa sulla Route 66 con una bella bionda in mano (analcolica se non volete perdere punti della patente) e l'altro braccio avvolto attorno a un'altra bionda (o altre sfumature tricologiche a voi gradite, qui l'unico rischio è innamorarsi).
Una band nata tra le basse terre della pianura e le colline dell'Oltrepò Pavese che sa sognare miti come John Mellencamp e Los Lobos, e oltre alla filologia ci mette del suo creando una sorta di ideale colonna sonora di un film che l'ascoltatore è portato a immaginare nella sua testa. Basta chiudere gli occhi, chiudere fuori le bruttezze del mondo e lasciarsi andare a un ascolto che sa di storie schiette, di viaggi appunto, di vita in una parola.
Tante ballate da assaporare a lume di candela, ma anche energia da vendere hanno questi ragazzi, che ci fanno dire a gran voce rock can never die come cantava Neil Young, ossia è un fiume destinato a non esaurirsi ma a rigenerarsi ansa dopo ansa, generazione dopo generazione. Chapeau quindi e onore a Roberto Semini (chitarra e compositore), Dario Savini (voce), Michele Romani (batteria), Riccardo Caldin (basso) e Fabrizio Sgorbini (chitarre e cori) cui si aggiunge la voce di Sara Cantatore.
Voto 7,5, per raggiungere il top avrebbero bisogno di un produttore come Rick Rubin o Daniel Lanois. (Lorenzo Morandotti)