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BETH GIBBONS  "Lives outgrown"
   (2024 )

Per il vostro affezionatissimo è, al netto di eventuali sconvolgimenti (o assai improbabili ripensamenti), il disco dell'anno (sì, lo so, arriverà a fine estate il nuovo Gilmour, ma è un'altra storia); questo è il più atteso in senso assoluto, ed è la promessa più mantenuta, voto 10 e lode e bacio accademico in fronte e dignità di stampa in formato SACD (ne dubito ma auspico): ve lo dico subito così ci togliamo il pensiero.

Eccovi alcune impressioni a un primo ascolto. In rete poi troverete tante intelligenti elucubrazioni (ad esempio la lirica recensione del "Manifesto") su questo manipolo di brani che arrivano - il buon Gabriel insegna - dopo una gestazione opportuna ma che agli occhi di noi profani (anche se fino alla morte devoti) risulta vieppiù diuturna e snervante. E lo è solo per colpa nostra, a ben vedere, ed è perché siamo abituati al consumismo seducente e assuefacente del fast, del tutto e subito, del mordi e fuggi e dimentica e getta via che ha prodotto, o comunque consentito, la tanta troppa melassa acustica oggi condivisa.

Qui stiamo su un altro pianeta e non è detto che sia per tutti. Tanto atteso perché era dal 2008 che non si faceva che rimpiangere i bei tempi andati. L'ho sentita (dai, concedete che me la tiro un po') dal vivo due volte, in occasione del tour del primo disco "solista" (per modo di dire, c'era lo zampino di Rustin Man ex Talk Talk) del 2002, e poi con il terzo tempo dell'esperienza Portishead, sempre a Milano nel 2008. Esperienze di ascolto indecifrabili, come essere sul set del primo ''Alien'' a braccetto con Judy Garland, da conservare in una scansia tutta speciale della mente, e invidio molto (l'invidia può essere un sentimento nobile) chi andrà a vederla come avviene - tutto esaurito ovviamente - alla Salle Pleyel di Parigi (dove Keith Jarrett peraltro incise l'immenso "Paris concert").

Beth esattamente a trent'anni dall'esordio con la band di Bristol e a cinquant'anni, guarda caso, dalla morte di Nick Drake, suo fratello di note, è tornata, e ascoltandola sai che tutto sommato non è mai andata via, è una parentela che ormai abbiamo nel DNA. Attesissima, però, e oltremodo necessaria in tempi bui come questi.

E torna, vivaddio, diversa da come ce la immaginavamo, certo diversa perché il tempo, accidenti a lui, passa e stritola e scolora, e lei lo dice con accorata, smagliante e disarmante semplicità, come ha tentato di fare Thom Yorke nell'ultimo album dei Radiohead peraltro (ma credendoci forse meno).

Che questo disco, gibbonsiano fino al midollo ma anche vicino a esperienze di ascolto come "Vespertine" di Bjork, sia da ascoltare e riascoltare non in mp3, dio liberi, ma con un impianto all'altezza, è quasi superfluo, ma in tempi di superficiale consumismo è doveroso ribadirlo. Ed è doveroso ribadire in primo luogo che la Beth che amavamo, e quindi ci aspettavamo, nel frattempo è cresciuta, maturata senza mai assolutamente tradirsi. E' sempre lei e sempre diversa come ogni buon fiume che si rispetti, anche se è carsica dal punto di vista ottuso dei discografici.

Nella costruzione dei brani, e molto negli arrangiamenti, senti che è il precipitato di oltre 15 anni + pandemia di sedimentazioni, riflessioni, secrezioni, meditazioni sulla metamorfosi che impone l'esperienza della vita, deposte con cura e amore strato dopo strato come su un letto di foglie e torba, su un tappeto/sudario sonoro e poi orchestrate con la cadenza di un respiro che culla le orecchie tenendole sempre deste, mai ipnotico quindi, perché sa di natura, mai di artificio.

Il bello di Beth è che ci parla sempre al cuore e alla mente scarnificandole, senza retorica, senza superfetazioni, senza facili effetti. E il bello è che difficilmente puoi rimanerne indifferente: anche se sei un fan sfegatato di pochezze assolute come Marracash, Babygang o simili, io dico che potresti redimerti facilmente, a beneficio della tua anima, per non finire all'inferno degli ascoltatori, solo con cinque minuti dicansi cinque di questo disco. Che tiene per così dire nell'altra stanza (e pur sempre a disposizione come echi infinitamente memorabili) le atmosfere cupe e romanticamente disperate dei purtroppo pochi album del passato (in vetta l'inarrivabile live del '97 a New York), o meglio le dilata, le diluisce in un canto che è preghiera smisuratamente estesa pur nei tempi stretti e matematici della musica, ed è anche contemplazione, ossia "considerazione" in senso etimologico (osservazione delle stelle, del creato, di ciò che siamo diventati) e dà un messaggio di luce, di colore se non di serenità e speranza, a differenza di molti capolavori di Beth con e senza Portishead.

Basti sentire quel concentrato di commozione che è "Floating on a moment" per capirlo, o "Lost changes", contributi incalcolabili alla prosecuzione del mondo che smuoverebbero anche il più tetragono dei fan di Putin o di Hamas a un rigurgito, per quanto tardivo, di coscienza.

Beth Gibbons con "Lives Outgrown" segna un'altra pietra miliare nel cammino di perenne metamorfosi del rock. Senza accomodarsi su facili definizioni, perché fa storia decisamente e orgogliosamente a sé senza darsi arie da diva. E con questo canto di maturità che guarda alla senilità senza sconti e senza infingimenti invita, dopo un opportuno momento di ascolto, ad amare ogni istante della vita. (Lorenzo Morandotti)