PARTINICO ROSE "Undeclinable ways"
(2024 )
Nei cinque anni trascorsi dalla pubblicazione di “Songs for sad and angry people“ - gran disco - ne ho lette di cose sui Partinico Rose da Ragusa: bravi sì, ma derivativi, somigliano troppo a questi, ricordano troppo quelli, interessanti, però, beh…
Pensai allora ciò che penso oggi. Ossia: vero, ma francamente me ne infischio.
Era un esordio di rara intensità, dichiarazione sia d’intenti che d’amore nei confronti di un certo suono e di una ben precisa area musicale di appartenenza: chi suona, pesca dal proprio background, esprime ciò che ha assorbito e metabolizzato, rimastica e rielabora, col filtro della personalità a fungere da diga tra il già detto ed il non ancora scritto. Nemmeno cito i numi tutelari che nei Partinico Rose sentii allora e sento oggi, perché non è importante: ciò che conta è che – qui ed ora – abbiamo per le mani un nuovo disco che scalcia, picchia, funziona. A prescindere da echi, rimandi e debiti col passato.
Come il debutto autoprodotto, così anche “Undeclinable ways”, pubblicato addirittura per Earache, capta alla perfezione il mood in cui il trio era ed è calato. Da lì non si esce, e va benissimo così, perché è questo il marchio di fabbrica, il tratto distintivo di una band centrata e coerente, che non giocherella con mode e tendenze, anzi: francamente se ne infischia pure lei.
I protagonisti sulla scena sono Vincenzo Cannizzo, Massimo Russo e Carlo Schembari, rispettivamente voce/chitarra, basso e batteria: essenziali, senza fronzoli, dritti al punto, infilano undici pezzi secchi, asciutti, efficaci. Rispetto all’esordio, alzano il tiro, inaspriscono il suono, conferiscono ai brani un taglio più deciso, sia che ringhino cattivi, sia che cerchino soluzioni falsamente morbide. La scrittura è maturata, sempre urgente e diretta, ma più calibrata, definita, a fuoco; sullo sfondo, il buio è sempre in agguato, fra malinconia, disillusione, risentimento e ben poca fiducia.
Il trittico iniziale è una bordata che definisce il clima ed indica la via: in apertura, la sberla di “Pitiful end” mette in chiaro l’aria che tira, non saranno quaranta minuti di relax; la rasoiata acida di “Prisoners” accresce il pathos soffocante; “Crazy shard” fa a brandelli tutto il possibile. Il canto è rabbioso, incalzante, come a voler spingere testi cupi e stringati, fatti di parole pungenti e scenari sporchi, verso il loro destino già segnato.
Anche quando i giri scendono (il rallentamento à la Placebo di “Runaround”; la ballata mesta di “Pettiness” con il suo drammatico racconto di violenza ed una coda toccante; la cronaca sui generis della pandemia nella title-track), il quadro rimane tetro, l’atmosfera opprimente: pietà è morta, è morta la speranza, amen.
Superate le effimere, ingannevoli oasi disseminate ad arte lungo la via crucis, torna sordo e compatto un incessante martellamento in minore, squassato dalla rotonda profondità del basso (“The hard competition”), un sabba di melodie sfigurate, affogate nelle acque limacciose di una generale sofferenza di fondo, giù fino alla chiusa lasciva di “Enter”, cadenza ossessiva immersa in un mood allucinato, morboso ed incombente.
“Undeclinable ways” è (anche) questo: fotografia contemporanea di una piccola umanità brulicante, ritratto impietoso e opaco di un microcosmo mai realmente baciato dalla redenzione, presagio non ottimistico del domani che verrà. (Manuel Maverna)