recensioni dischi
   torna all'elenco


DOG UNIT  "At home"
   (2024 )

Questo disco è la perfetta colonna sonora di qualcosa che dirvi non so.

Si modella come plastilina, assumendo le forme desiderate: una giornata di sole, un viaggio in treno, un ricordo, un pomeriggio al mare, una notte insonne. E’ musica universale per tutte le stagioni, avvolgente e allettante, un flusso ininterrotto di suoni senza pause né cedimenti, senza noia o banalità, prodigio di incastri, sfoggio di idee in perpetua evoluzione.

A tirare i fili in questa sontuosa rappresentazione, tanto indefinibile quanto adorabile, è il quartetto londinese Dog Unit, ensemble che con metronomica precisione e colta inventiva cesella i quarantatré minuti strumentali di “At Home”, scintillante esordio per Brace Yourself Records. Mai eccedendo in virtuosismi cervellotici né aggrappandosi a partiture cerebrali, i chitarristi Henry Scowcroft e Sam Walton, il bassista James Weaver e la batterista Lucy Jamieson ricamano melodie, arabeschi, tessiture di pregevole fattura, semplici in apparenza, efficaci nella loro falsa linearità, trame ariose sorrette da una bella ritmica pulita e sostenuta, parente stretta di quel kraut rock d’antan che ancora ci illude.

Brani sfaccettati e fluidi oscillano con garbo tra mood cangianti, fluttuando tra l’apertura attendista, morbida e bucolica di “Concrete barges on the banks of the Thames” ed il passo motorik di “Lab coats”, dalle inflessioni à la Tortoise di “When do we start fighting?” al languore agreste di “In a magic world, then yes”, conservando intatti impeto e brio creativo; nell’estrosa cavalcata confluiscono rimandi disparati a modelli noti, ma è dal lavoro certosino sui suoni e dalla cura maniacale degli arrangiamenti che scaturisce un milieu brillante e distintivo.

La personalità è strabordante, dispiegata nell’aria sorniona di “John X Kennedy”, suggestivo ibrido tra Pink Floyd ed il Peter Green periodo “In the skies”, nelle repentine impennate elettriche di “Consistent effort”, ma soprattutto nelle contorsioni di “We can still win this”, con il basso a guidare una cadenza pulsante, spenta dopo due minuti in un tourbillon di stop-and-go a singhiozzo e dissonanze in caduta libera, tra scariche di feedback disturbato ed un passo che lambisce sia suggestioni math sia rimembranze fugaziane, mentre la sezione ritmica prosegue imperterrita a macinare il suo battito incessante.

In coda, rimangono le atmosfere dilatate e soffuse à la Ronin di “The dogs are barking again” - esili e diafane, abbarbicate attorno ad armonie impalpabili – a chiudere con movenze rallentate, sinuose e cinematografiche un album coinvolgente, intenso, palpitante. Classe ed eleganza al servizio di una libertà espressiva foriera di piccole fragilissime deviazioni, ricca di movimenti inattesi, eppure comprensibili, godibili, preziosi nella loro concezione ben radicata di una musica diversa, adattabile ad ogni stato d’animo. (Manuel Maverna)