recensioni dischi
   torna all'elenco


ONCEWERESIXTY  "Loco sunset boulevard / Ghetto blast noise mach"
   (2024 )

Nell’inusuale formula del doppio ep, “Loco Sunset Boulevard/Ghetto Blast Noise Mach”, su etichetta Uglydog Records/Beautiful Losers, vede il ritorno del trio vicentino Onceweresixty a tre anni dal brillante esordio di “The Flood”.

Nati nel 2018 dalle ceneri degli Mr60 su iniziativa degli ex-membri Marco Lorenzoni e Luca Sella, aggiunto alla line-up Enrico Grando, chitarrista dirottato al synth, si ripresentano con queste nove tracce che coniugano slowcore e alt-country in una musica prevalentemente placida, quaranta minuti di varia morbidezza appena screziati da un’elettricità mai sovrastante, figli di un approccio che ricorda a tratti i Red House Painters di Mark Kozelek, altrove le movenze suadenti e riflessive dei Low.

“Don’t get stuck” introduce il mood imperante dell’album su una pigra cadenza tra Wilco e Richmond Fontaine, “Running” suggerisce perfino una lontana eco beatlesiana, mentre il passo laid-back di “Weird Times” decreta il trionfo di atmosfere votate ad una sostanziale rilassatezza, mirabilmente amplificata nel quattro quarti gentile e sornione di “Back in the Days”; i filtri sulla voce evocano addirittura i Jesus & Mary Chain più accomodanti, pennellando un r’n’r alla moviola deliziosamente conciliante, che mischia con garbo slackness e groove, ammaliando senza confondere.

I due minuti strumentali di “Loco Sunset Boulevard”, guidati da un tema in minore del pianoforte e sfregiati da rumori di fondo, fungono da cesura tra prima e seconda parte, preludio ad una movimentata “Pills”, forse l’episodio meno allineato della raccolta: seguendo uno schema avulso dal resto dei brani, disturbi in apertura introducono un canto docile su cassa dritta, con rilascio della ritmica all’altezza dell’inciso che funge da falso ritornello, prima del collasso nella nebulosa finale. E’ uno sviluppo inatteso, ma – come tutto il resto dell’album – funziona a meraviglia.

La coda è affidata alla slide desertica di “Into town”, allo shuffle indolente ed al mood cangiante di “Consequence of Capitalism”, alla chiusura dimessa di “All that Glitter”, che riporta tutto a casa sulle ali di un rallentamento vagamente incupito, epilogo di un lavoro ammirevole per intensità, eleganza, profondità e fascino sottile. (Manuel Maverna)