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ARLO BIGAZZI & ELENA M. ROSA LAVITA  "D'altronde sono sempre gli altri"
   (2024 )

Arlo Bigazzi l'abbiamo conosciuto in varie forme, come artista. La prima volta mi ci sono imbattuto perché aveva realizzato una dedica teatrale sperimentale a Majakovski, quindi un lavoro dalla forte connotazione politica. Ma in realtà, si è occupato di ambiti musicali disparati a 360 gradi. E questa volta, l'incontro con Elena M. Rosa Lavita ha scaturito una nuova direzione.

Elena M. Rosa Lavita è una visual artist immersa nell'estetica goth, che poi si è dedicata anche ad esplorare i suoni. Un suo lavoro ad esempio è “Dismembering a dead swan”, cioè “Smembrando un cigno morto”, riferendosi al Cigno di Tchaikovskij. Già da questo, si può intuire la fascinazione verso l'oscurità. Bigazzi, lettore di storie gotiche da giovane, ne è rimasto colpito, e i due hanno avviato una collaborazione, partendo dal punto che hanno in comune: il basso.

Entrambi bassisti, entrambi esploratori del suono e del rumore, hanno pubblicato insieme “D'altronde sono sempre gli altri”, uscito per Materiali Sonori, dove tenebrose note dei due bassi vengono accompagnate da sinistri rumori, cigolii, oscillazioni di frequenze e tutto il necessario per entrare in un'atmosfera dark.

Abbiamo otto tracce, i cui titoli si commentano da soli: “Bruit secret”, “Manrovesci”, “11° Giorno – Colpo apoplettico spirituale”, “Indipendenti dagli avvenimenti esterni”, “The great enemy of art is good taste” (e questa è una massima attribuita a Picasso, ma qui forse l'intenzione si rivolge al pensiero di Truman Capote), “Ahi serva Italia di dolore ostello” (ciao Dante), “Élevage de poussière”, e infine la quasi-titletrack, nel senso che rivela come finisce la frase che dà il titolo all'album: “D'altronde sono sempre gli altri a morire”, frase scritta sull'epitaffio di Marcel Duchamp, il dadaista per antonomasia.

Tutti i brani hanno una loro particolarità, ma sono caratterizzati nello stesso modo: sono un dialogo tra le note dei bassi e i loop generati. Un'alchimia che porta quasi inevitabilmente all'introspezione, una sonorità generalmente chiusa, che porta buio e una sorta di consapevolezza del silenzio, come quasi sempre accade, con i lavori ambient.

Sarebbe curioso vedere, se Lavita la praticasse ancora, a quali opere visual farebbe corrispondere a questo disco. C'è una sensazione di minaccia costante, ma non turba l'ascoltatore: è come una minaccia “esposta” in un museo, una gipsoteca di statue deformi, da studiare e contemplare, ma che non fanno paura, destano solo la curiosità, che poi è la linfa vitale per rafforzare la cultura dell'ascolto. (Gilberto Ongaro)