FROM GREY "To dust"
(2024 )
Figlioli cari, io vi capisco bene, e lo so – non crediate – che vi innamorate facilmente di Erotic Secrets of Pompeii, bdrmm, Friko e Yard Act, ma permettete anche a noi laudatores temporis acti di fermarci un attimo sul ciglio del cammin per rifiatare, ché ad un certo punto costa fatica tenere il passo e restare aggiornati. Oddìo, lo si fa: ma volete mettere lasciarsi coccolare da dischi così?
Strappato a chissà quale era remota e catapultato qui come una gemma del passato, riscoperta sotto strati di novelties e sonorità sorprendenti, il trio francese From Grey – che non arriva da un buco spazio-temporale, ma solo da Nantes – pennella quaranta minuti di pura beatitudine per nostalgici, undici tracce di un alt-folk che è eccessivo chiamare alt, a tratti impregnato di tanto di quel Dylan da riempire di gioia i devoti del menestrello di Duluth, ad esempio dopo non più di una decina di secondi dell’opener “Soldier”, che pare provenire direttamente dalle sessions degli album pre-elettrici del Nostro, roba di sessant’anni fa, ma fieramente immarcescibile. Poi, man mano che ci si addentra tra i meandri di cotanto primigenio splendore, il tono muta, ma solo impercettibilmente: cambiano le forme, non la sostanza artistica del progetto, che conserva intatto l’afflato sottilmente démodé di riferimento.
A lunga distanza dal debutto omonimo, datato 2018, anch’esso statuario nella sua malìa d’antan ed inzuppato nello stesso mood, arriva questo centratissimo “To Dust”, che vede l’ingresso in formazione del percussionista Nicolas Delaqueze accanto ai membri fondatori Ronan Kéromnès (voce, chitarra, armonica) e Stéven Rouger (chitarra, banjo), già Ronan K., sigla dalle cui ceneri sono nati i From Grey; lavoro incentrato sulla personale declinazione di una musica tanto ancestrale quanto immortale, l’album è un tripudio di ballate intime (“This Life Is Not For Me”) ed esaltanti cavalcate western (“Salem City”), un solido campionario di tradizione rivisitata sul quale si affacciano sporadiche tentazioni di vago sapore indie, mai preponderanti né invadenti, sempre defilate rispetto al clima prevalente.
Clima che parla di atmosfere morriconiane, di suggestioni che richiamano Hugo Race o Davide Eugene Edwards (l’eco tribale di “To Dust Part 2”), di virate verso un folk noir denso ed incupito (“To Dust Part 1”), ma che sa anche destreggiarsi – senza mai smarrire il fil rouge dell’omaggio alle origini – tra il piglio country di “Marauder”, col suo sentore di cappelli da cowboy, fiddle, stivali e rodeo, ed una “Ice Storm” che sembra una “Karmacoma” suonata a Newport. In chiusura, l’aria dimessa di “Dead For Halloween” riporta tutto a casa su un rallentamento mesto à la Dead Brothers, suggello ideale ed emblematico ad un lavoro meravigliosamente desueto, antico e adorabile, così lontano, così vicino. (Manuel Maverna)