SWANZ THE LONELY CAT "Swanz The Lonely Cat's Macbeth"
(2024 )
Per questioni scolastiche e passione drammaturgica, il Macbeth l’ho riletto qualche mese fa, con mia figlia diciassettenne, e ad essere sincero mi ha lasciato sottopelle una sottile, strisciante, fosca inquietudine. Ha una trama sordida, sporca, trionfo e denuncia della smodata ambizione umana, che non si arresta neppure di fronte alla morte, capace altresì di travalicare il limite della coscienza, per sola ambizione e sete di potere.
L’idea di sonorizzare il Macbeth, accentuandone i passaggi salienti, è già di per sé impresa ardua e meritevole di plauso, tanto più laddove non si limiti a fungere da supporto allo scorrere di immagini, bensì azzardi una trasposizione in musica del sentimento prevalente nella finzione teatrale, evocato da tessiture particolarmente adatte ad esprimerne l’intensità. Operazione concettuale di complessa attuazione, richiede soverchio impegno per approcciare materiale ostico, a cavallo tra molte istanze - visive, storiche, letterarie – in mutuo interscambio tra artista e pubblico.
Da un lato, ci vogliono intuito, creatività, coraggio.
Dall’altro, occorrono disponibilità, apertura, e - ça va sans dire - altrettanto coraggio.
Da un lato, c’è Luca Swanz Andriolo, in arte Swanz The Lonely Cat, o semplicemente Swanz, da quasi quindici anni voce e molto altro nei Dead Cat In A Bag, band torinese alt-folk che mi ricorda i Tindersticks come i Dead Brothers, i Sacri Cuori, Hugo Race o gli Hazy Loper, fate voi.
Dall’altro, c’è l’ascoltatore audace, che si avventura nella decrittazione di un lavoro colto ed elitario, scopertamente dotto nel taglio che si dà, eppure ammaliante, avvolgente, intrigante nel ripercorrere passo dopo passo la vicenda shakespeariana attraverso due lunghe tracce da ventotto (“A Walking Shadow”, suddivisa in dodici parti che segnano il plot) e venticinque minuti (“Macbeth Suite”).
Pubblicato per le label indipendenti Toten Schwan ed EEEE, “Swanz The Lonely Cat’s Macbeth”, interamente concepito, suonato, arrangiato, mixato e prodotto dallo stesso Swanz, si snoda sinuoso tra clangori metallici, suggestioni drone, martellamenti ossessivi (“The battle”/”The wood began to move”), battiti incalzanti, squarci di melodia (“The banquet”), oasi di stasi raggelante e rade impennate, inserti chiesastici (“Requiem”), scosse repentine e variazioni minimaliste, discostandosi dal milieu Dead Cat In A Bag per virare con decisione verso una declinazione sui generis del verbo Swans, lambendo al contempo le tentazioni cinematografiche dei Ronin nei movimenti più leggibili, l’arte tenebrosa di Blixa Bargeld & soci, l’astrattismo nebuloso degli ultimi Flying Saucer Attack nei momenti più sfuggenti ed inafferrabili (“That way the noise is”).
Riferimenti – va detto - appena percepibili sotto la spessa coltre di elaborata autorialità che ammanta queste composizioni rarefatte: fedelmente estrapolati dal testo della tragedia, versi sparsi mutano in sospiri, mentre intermezzi agghiaccianti e recitativi baritonali definiscono, su un tappeto di suoni cangianti, mutevoli, fluttuanti, il perimetro di un lavoro lontanissimo dalla forma-canzone, racchiuso tra le mura di un progetto ambizioso e sfaccettato, frenetico a volte, altrove riflessivo e profondo, ovunque pervaso da una meticolosa ricerca del dettaglio ad effetto, della sfumatura, del particolare.
Musica dall’elevato potere immaginifico, trova ideale contraltare nella rievocazione scenica – tutta psicologica, s’intende – di quelle stesse lande desolate che costituiscono parte dell’ambientazione originale, mostrando veemenza o afflitta quiete, in un palpitante saliscendi di cupa tensione insistentemente accumulata e rilasciata, inghiottita alfine da una straniante coda di rumore bianco.
E’ in realtà soltanto il preludio alla seconda parte, quella “Macbeth Suite” che riassume ed arricchisce la vicenda quasi ne fosse uno spin-off, concedendosi una maggiore lievità espressiva, ora sì prossima alle decadenti atmosfere noir – qui più trasognate ed eteree – dei Dead Cat In A Bag, presenti sottotraccia tra le anse di una mesta elegia strumentale in minore, ma a tratti vicina come non mai anche all’ermetismo mistico di Nero Kane e Samantha Stella (non a caso curatrice della promozione dell’album).
E’ un lungo brivido umbratile lasciato vibrare - spettrale sì, ma pure curiosamente morbido - tra sporadiche, brucianti asperità e dilatazioni elusive o imponenti, un incessante vagare ad occhi chiusi che rinuncia sia a costruire un climax, sia a definire – quasi non occorresse - un principio e una fine, un prima e un dopo.
E’ un commiato sfumato, un’uscita di scena meditata e graduale, che cala il sipario su un’opera concepita per superare gli angusti confini di un disco, proiettata verso un superiore livello di fruibilità erga omnes. (Manuel Maverna)