INDRO FIUME "Io non sono qui"
(2024 )
Il Cavalluccio marino fa conoscere una proposta davvero interessante, dal punto di vista spirituale. L'ottobre scorso, la Seahorse Recordings ha fatto uscire “Io non sono qui” dele veneziano Indro Fiume, al secolo Giovanni Conigliaro. Nell'aspetto prettamente musicale, non si tratta di nulla di innovativo, ma è un bel wave rock, caldo e coinvolgente, a tratti sobriamente emozionante, impreziosito dalla voce baritonale di Fiume. Ma sono le parole, che catturano l'attenzione.
La musica è funzionale ai testi, oscura quanto basta. Non si tratta di “dark” inteso come nichilismo, o un cliché gotico; al contrario, si tratta alchemicamente di quella nigredo, l'oscurità necessaria per raggiungere l'irraggiungibile. Quella tensione verso il sublime che tutti i cuori romantici conoscono bene. Mentre penso a questa interpretazione, mi arrivano le parole di “Electrick blackbird” a confermarmela: “Il cielo è più puro nel punto più buio”. Esatto, c'è necessità di fare scuro, tant'è che i termini negativi vengono attribuiti al chiarore. Il primo verso della prima canzone, “Tredici lune”, apre il disco così: “Una luce uccide il buio (...) Luce fredda instabile, ruvida alle mie palpebre, buio caldo e libero”. Elementi ricorrenti sono la luna e i quattro elementi. Numerose le visioni suggestive, come quei “nastri di pietra nel vuoto sospesi”, della suddetta “Electrick blackbird”, o quella in “Moon over me”: “Nella notte il cielo si divide in strade, tra le rocce e gli alberi (…) l'acqua è ribelle”.
Voglio riportarvi parte del testo di “Confini”, senza dare spiegazioni: “Come figli adottivi noi non apparteniamo a nessun luogo, noi apparteniamo a noi stessi, agglomerati di carne e paura, (…) Odori come il fuoco, corri nelle fiamme senza esitazione, vorresti solo sapere se questa è realtà o è la finzione”. Pensando a Hegel... no dai, non vi voglio spaventare. Semplicemente, spesso le parole evocano altro da sé. Tramite le arti, in questo caso la musica, lo spirito si manifesta in forma sensibile. In “Fumo blu” ad esempio, anche evocando il materiale più “stradale”, ci si può trovare altro: “Negli occhi il grigio come l'asfalto, e liquefatto ma illuminato”. E poi: “Nella mia borsa le foglie morte, abbandonate come ricordi”. Vedi, ancora morte, nelle feuilles mortes. Eppure non c'è tristezza, solo la consapevolezza della trasformazione.
Il contrasto luce-buio torna nell'accoppiata di titoli “Fiori d'ombra” e “Fiori di giorno”. In entrambe le canzoni, si parla di voce e di libertà. Dalla prima: “La mia voce scorrerà tra le vene della terra, e poi ti raggiungerà tra l'immenso e il vuoto oceano (…) fiori d'ombra contro i muri che dividono noi uomini, mai liberi”. Dalla seconda: “Una voce libera chiede luce alla luna, chiede spazio alle stelle, poi ritorna alla terra, attraversa laghi e fiumi sotto alberi di sale, si riflette sulla pietra e si scioglie dentro al mare”. E prima accenna a “occhi dietro a un velo”. Che alludesse al velo di Maya?
“Piuma e petrolio” non è una canzone ambientalista, né una denuncia pasoliniana, ma un altro esempio di suggestione mistica, che contiene un'immagine quasi da Miyazaki: “Che tu sia benedetto, cuore che muterai in uccello marino, oltre il guado sparirai”. Una batteria in fade in apre il brano più energico del disco, “Oceani”, e anche qui ci sono domande misteriose: “Quale mano crea il fuoco? Non la sua, né la tua”.
“Umi” chiude l'album nella carne: “Quale idiota sarò io? Chiudendo gli occhi arderò sul tuo seno”. Ma ho tenuto per ultima la seconda canzone nella tracklist, perché ci vedo il succo: “Nel nemico nel controllo”. Qui c'è tutto l'approccio di Indro Fiume, nel guardare a sé, ed è d'ispirazione nel fare altrettanto: “Quello che scorre in me, è soltanto acqua fragile, in principio ero io (spirito), senza alcuna specularità (…) e riformulerò l'esperienza di uno sforzo irreversibile. Nessuno ha il controllo, neanche della carne”. “Io non sono qui”, recita il titolo dell'album. E tu, sei sicuro di essere lì, da dove stai leggendo? (Gilberto Ongaro)