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VINCE E I RUVIDI  "Casadei secondo Vince"
   (2023 )

Visti da fuori, liscio e blues sembrerebbero lontani. Le nostre orecchie li incontrano in situazioni diverse. Il primo lo troviamo in Italia, con fulcro in Romagna, nelle balere e nelle sagre. Il blues storicamente viene dagli afroamericani, e dagli Stati Uniti si è diffuso in tutto il mondo, ma sempre col pensiero all'origine black.

Eppure, ci sono caratteristiche che accomunano i due mondi: l'esistenza di giri di standard di accordi; i testi incentrati sul desiderio d'amore, spesso scritti in dialetto; e, ultimo ma non ultimo, la capacità di assorbire e accorpare in sé stili diversi. Quando diciamo genericamente “liscio”, in realtà possiamo ascoltare valzer, polka, tango, e negli ultimi anni anche cumbia, bachata eccetera. Il blues, dal canto suo, prende dal vasto universo del gospel, dello spiritual e del successivo jazz, e poi diventerà la base del rock'n'roll. Quindi, stiamo parlando di due generi – centrifuga.

E che succede, a mischiare due centrifughe? Un tornado! Vince e i Ruvidi hanno quest'intuizione, e recuperano brani di colui che ha reso celebre il liscio, il compositore e violinista Secondo Casadei, e li trasformano in blues. Questo è l'album “Casadei secondo Vince”. Mantengono le armonie e i testi in romagnolo, ma la chitarra elettrica fa lick pentatonici, ci sono le blue notes, il pianoforte... A quanto pare, lo strumento che si sa trovare a proprio agio ovunque, è il violino!

Non c'è il super classico di Casadei, “Romagna mia”: si è andati ad esplorare i titoli meno noti ai forestieri del folk romagnolo. “Sturneli ad Rumagna”, “Un bès in biciclèta”, “Burdèla avèra”, “Appassiunêda”... Divertente paragonare le versioni. La più scioccante è “Lôm a merz” (tranquilli, amici del Sud, non è un insulto: vuol dire solo “Lume a marzo”, una tradizione incendiaria...).

L'originale è un valzer canonico, con una melodia languida e commovente, sul ritmo vivace. Vince e i Ruvidi che fanno? La trasformano in due modi. La prima metà del brano è un 6/8 strascinato, con chitarra e violino che “piangono”, e alla voce principale risponde un coro suggestivo. A metà si fermano, e ripartono in un veloce boogie. La verità, è che quel brano è davvero immortale, mi sa che quel ritornello con i “burdeli inamuredi”, starebbe bene in qualsiasi salsa.

Notevole anche “Nadèl in Rumagna”, dove i Ruvidi allungano l'introduzione ambientale dell'originale, trasformandola quasi in un'allucinazione. “La ven da la zità” abbraccia un topoi che ulteriormente accomuna liscio e blues, ma forse tutto il mondo: la paura che una donna “di città”, disinibita e sicura di sé, suscita nei “cafunaz” di campagna, con le loro superstizioni e i loro giudizi: “Da tót l’a’s’ fa tuchè, e quelch baset la se fa dè” (devo tradurre? Dai, ce la potete fare!)

Lo scatenato pasodoble “Spagnolita” si trasforma in un lentissimo tango argentino, carico de pasiòn e struggimento. Ma il vero capolavoro sta alla fine: lo strumentale “Angelo Effe”, in origine un valzer che segue il classico schema con strofa in tonalità minore e ritornello in tonalità maggiore. Qui, la struttura viene esposta per intero dal pianoforte solista, con grande espressività romantica.

Dopodiché, ecco la magia. Il pianoforte intona la melodia di un'altra canzone, al rallentatore. La cita, in modo che tu la riconosca, ma senta anche la differenza. È come se la melodia, dalla terra, dalla balera da cui è nata, dalle gambe stanche dei ballerini, fosse ascesa, trascesa alla musica “d'arte”, come una legittimazione (se ce ne fosse bisogno), portando la musica di Casadei accanto a quella di Debussy e Chopin... Basta, non so come concludere, perché devo asciugarmi gli occhi! (Gilberto Ongaro)