LEONARDO BARBADORO "Musica automata"
(2023 )
Il profeta dentro di me potrebbe iniziare a dire: “Il momento è arrivato, era scritto...”. Nel mondo del lavoro operaio, tutto viaggia in quella direzione che sembra ormai inevitabile, quella dell'automatizzazione totale. Spariranno i lavori manuali, diventeremo tutti manutentori di software, finché gli hardware non faranno i capricci. Che valga anche per i musicisti?
Antoine Favre, colui che ha perfezionato il carillon nel 1796, non poteva immaginare che saremmo arrivati ad un'intera orchestra di robot! È quello che ha realizzato Leonardo Barbadoro, e che possiamo ascoltare nell'album “Musica automata”, uscito per Helical. Non si tratta però né di elettronica, né di intelligenze artificiali: la musica è composta da Barbadoro, per strumenti d'orchestra, e i robot che li suonano, sono da lui controllati dal laptop.
La sfida più grossa di tutte da sempre, per chi fa automatismi, è l'elefante nella stanza dell'espressività: riuscire a riprodurre il tocco umano, renderlo credibile. Lontani sono i tempi del “semplice” pianoforte che si suona da solo. Barbadoro riesce a far soffiare anche un sassofono, e a programmare dunque la forza uniforme del getto d'aria, con la dinamicità di chi vuole aumentare e diminuire l'intensità del suono.
La maggior sorpresa sta a metà della titletrack, la prima lunga traccia di quasi 10 minuti: i fiati suonano note lunghe e “rotonde”, non si sente la forzatura automatica. Anche se chiaramente, non avendo bisogno di respirare, ci si può permettere allungamenti impossibili. C'è però da dire che, per la maggior parte del tempo, Barbadoro ha scelto di scrivere note in staccato (come quelle dell'oboe in “Ob Asa St5+7”), e di usare soprattutto percussioni, come campanelle (“Bel_exp I” e “Bel_exp II”), vibrafono (“Vibi”) e tanti tamburi in “Terzo”, nonché in “Hybr Spiro”, dove i vari rullanti e timpani simulano una drum machine da jungle music. Questo gli garantisce la maggiore efficacia possibile, nell'utilizzare i robot. “Hybr Spiro” è una delle musiche più funzionanti dell'album, forse proprio perché i robot stanno imitando uno stile che solitamente già si suona in loop.
Tant'è che la simulazione umana si perde, quando nel minuto di “Qt”, l'automatizzazione si applica ad un organo, dal registro flautato. Là si percepisce la freddezza. Ma dev'essere voluta, anche perché c'è una predilezione per soluzioni contrappuntistiche. Dovendo programmare ogni singolo braccio meccanico per ogni singolo tasto, per ogni singolo bottone, risulta scomodo fare accordi pieni. La direzione che gli stessi robot suggeriscono, è quella di una composizione abbastanza cerebrale, costituita da loop, come quella di “Bomi”, sempre col suddetto organo flautato. Il pianoforte arriva ad inquietarci in “Mumb”, tra un tema principale nervoso, e poi virtuosismi davvero disumani.
“Musica automata” è un lavoro che rischia di dividere, pur non essendo radicale. Non ci sono esagerazioni sperimentali, non c'è la ricerca della dissonanza a tutti i costi, anzi, si resta nelle vie della tonalità. Però, per quanto gli strumenti siano naturali, un po' di eccessiva precisione c'è. Può essere una strada da approfondire, ma a mio umilissimo avviso, secondo me, avendo ora la possibilità di eseguire cose impossibili dall'essere umano, invece di cercare di assomigliargli il più possibile, io direi di addentrarsi in labirinti impossibili per noi, agevoli per i robot. Ma sono scelte. E poi, prima o poi doveva capitare! L'idea di Barbadoro è acuta, egregiamente prodotta, e vagamente inquietante. (Gilberto Ongaro)