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LORENZO DEL PERO  "Nato il giorno dei morti"
   (2023 )

L’album “Nato il giorno dei morti” esce il 3 novembre 2023, subito dopo il compleanno dell’autore pistoiese Lorenzo Del Pero. L’artista crede, oppure intende far credere agli ascoltatori, che la sua data di nascita sia stata predestinata e gli abbia influenzato la vita.

Fin dal primo ascolto, nei dieci brani presenti sul disco si possono notare lo stile rock classico e robusto, che ricorda le storiche band degli anni ‘70/‘80, e soprattutto la corretta dizione usata nella pronuncia delle parole, una rara avis nella musica moderna di oggi.

Quando poi, in seguito a diversi ascolti, si entra più in confidenza con ogni brano, si cominciano a percepire delle sonorità strumentali interessanti e anche piacevoli: per esempio, un imponente basso di percussioni e un nobile suono di violoncello ne “Il teatro dei vinti”, i cori in “Deponi le armi, soldato!”, il pianoforte ne “Il sogno di un profeta” oppure una cristallina chitarra acustica in “Giugno”…

Oltre alla certezza che Del Pero suoni la chitarra a un livello di eccellenza, per ora il pubblico ha poca possibilità di sapere quale dei tre realizzatori musicali – Lorenzo Del Pero, Flavio Ferri e Marco Olivotto – produca effettivamente ognuna di queste belle sonorità, oppure se tutto è stato prodotto e registrato su dei supporti informatici… ma tale “mistero” può diventare uno stimolo per andare ai concerti dal vivo e per non accontentarsi dell’ascolto a casa.

Nei testi poetici presenti sull’album, probabilmente scritti in totalità da Lorenzo Del Pero, il tema ricorrente è quello dell’ingiustizia e delle disuguaglianze sociali, evocato con molta coerenza e onestà nel brano intitolato “Il teatro dei vinti”, inizialmente creato come singolo. L’uso dei verbi in seconda persona plurale rivolgendosi ai potenti della Terra e il fatto che tutti i versi delle strofe abbiano la stessa struttura sintattica e melodica, rendono il messaggio poetico de “Il teatro dei vinti” particolarmente forte ed efficace.

Vi sono tante importanti problematiche sociali sintetizzate in una sola canzone di pochi minuti, il che rappresenta un grande pregio per un cantautore: i detentori del potere si stupiscono che il povero ruba per fame, sbirciano dal buco il teatro dei vinti (immagine che in qualche modo ricorda il famoso romanzo di attualità “1984” di George Orwell), sudano a lustrare le vite dorate, nascondono le mani dalle proprie sassate, riempiono di cristi le patrie galere, voltano la testa di fronte agli abusi, scrollano le spalle tacendo i soprusi... e diversi altri comportamenti definitori, tutti passati in rivista in soli 4:33 minuti di canzone.

“Il teatro dei vinti” culmina con la verità espressa schiettamente nel ritornello: “Nemmeno vi sfiora il pensiero/ Di non aver mai lottato davvero”… e a sorpresa, alla fine del brano, il verso “Di non aver mai lottato davvero” diventa “Di non aver mai AMATO davvero”!

Le stesse tecniche, cioè quella della ripetizione voluta e quella della seconda persona plurale, vengono usate nei versi di “Penitenziàgite”. Il titolo del brano rappresenta la forma contratta in volgare di “Poenitentiam àgite!” (“Fate penitenza!”), motto del movimento ereticale della setta degli Apostolici creata da Gherardo Segarelli nel tredicesimo secolo e continuata dal movimento dei Dolciniani, a cui fa riferimento anche Umberto Eco ne “Il nome della rosa”.

Anche in “Penitenziàgite” vengono elencati dei peccati delle classi dominanti, come quelli di aver: svelato le nudità degli umili, loro, che sono abituati alle armature; rubato il pensiero, loro, che sono inetti a pensare; privato dalla libertà, loro, che sono devoti alla schiavitù; violentato l’utopia, loro, che sono inadatti al sogno; mortificato l’intelletto, loro, che sono asserviti alla stupidità; distrutto la fantasia, loro, che sono inabili al volo; disprezzato la cultura, loro, che sono costretti all’ignoranza; usato le insicurezze, loro, che sono abituati alla prevaricazione; aver tolto la dignità, loro, che sono inadatti a provare vergogna…

Per tali peccati i potenti vengono perdonati nel testo della canzone, dove l’autore non chiede al Signore di perdonarli, ma afferma di perdonarli lui stesso: “Vi perdono…”, dice ripetutamente all’inizio di ogni verso. Ciò potrebbe essere interpretato come aberrante volontà di sostituirsi a Dio, ma dipende da che cosa si vuole intendere per “l’io” che perdona: se si tratta di un io collettivo, se il cantautore si fa portavoce di una massa di persone umiliate che perdonano gli oppressori, allora il discorso cambia e assume un significato costruttivo.

I riferimenti alla divinità sono presenti anche nella title track, “Nato il giorno dei morti”, il cui testo sembra un’elaborazione personale di immagini che conosciamo dal Vangelo. Si sentono degli audaci abbinamenti di parole, come: “la menzogna della Redenzione nel cesareo di un grembo materno”; “dall’inganno di una mangiatoia che nel dubbio risorse alla vita”; “le stigmate… in memoria la più bella eresia concepita”; “gli agnelli sacrificali che nel dubbio si fecero scarni, al banchetto di lordi maiali assuefatti a mangiarne le carni”; “dal sepolcro la Vergine Madre al cospetto del Cristo tradito, lo proscioglie dall’ira del Padre che lo accusa di avere fallito”…

Tutto ciò fa sembrare che l’autore voglia travolgere il messaggio cristiano, ma in fin dei conti il suo è un segno di fede: se un figlio si ribella contro un genitore, lo fa perché riconosce l’importanza di quest’ultimo. Anche da questo punto di vista il lavoro di Lorenzo Del Pero si distingue da quello di tanti altri artisti odierni, il cui atteggiamento è troppo spesso caratterizzato dalla leggerezza e dall’indifferenza.

“La culla della civiltà” è un’altra canzone critica nei confronti della società in cui viviamo, un blues che ricorda bene – per via della metrica, del modo di uso degli strumenti e dell’accelerazione ritmica finale – l’atmosfera ricca di speranza dei primi anni ‘70 del secolo scorso. Anche se, di norma, per “la culla della civiltà” s’intende la Mesopotamia, l’autore sembra che ne estenda poeticamente il senso e che si riferisca alla società moderna capitalistica.

Ha una grande forza il verso “Violentato il diritto alla felicità”, che si ripete due volte in rima con “Nella culla della civiltà”, potendo richiamare alla memoria il titolo e l’argomento del libro “Il disagio della civiltà” di Sigmund Freud. E altrettanto evocativo è il contrasto tra il “lamento di un sogno dato in pasto al porcile” e il “richiamo intimato all’impegno civile”, in un tempo “arroccato nel guscio del sonno cosciente”.

“Deponi le armi, soldato!” e “Di troie e di cani” sono altri due brani usciti come singoli prima della registrazione dell’album e di ciascuno dei due abbiamo a disposizione in internet una spiegazione data dallo stesso Lorenzo Del Pero. Sulla canzone “Deponi le armi, soldato!”, l’artista afferma di averla scritta “perché commosso e indignato di fronte alla foto di una madre afghana che porge il proprio figlio a una soldatessa dei marine”, ritenendolo un “gesto disperato di una madre che affida alle braccia di una donna sconosciuta il proprio bambino nella speranza di salvarlo dalla guerra e di farlo crescere in un mondo libero”. È quindi una canzone contro la guerra, molto di attualità, la cui creazione è partita dall’illusione di tante persone e nazioni disperate, appunto, che vedono gli Stati Uniti come terra della salvezza e della libertà.

Sul singolo “Di troie e di cani”, invece, il suo autore sostiene di averlo scritto perché sentiva “l’urgenza di dare voce a tutte le persone che manifestano una condizione di disagio, di diversità o sottoposte a un regime di coercizione rispetto a ciò che è considerato socialmente accettabile”. Nel brano compare l’immagine di una “festa grottesca di troie e di cani”, forse una metafora della società spudoratamente avida di potere e di controllo sui più deboli.

La parola “troie”, molto probabilmente, non si riferisce alle prostitute (sarebbe un’offesa nei confronti delle donne costrette a condurre una tale vita e risulterebbe poco coerente con la filosofia generale dell’artista), bensì al suo significato antico riguardante la parte femminile del maiale, anche perché il Vangelo presenta il suino come corpo in cui il diavolo preferisce abitare. Un discorso simile si può fare intorno alla parola “cani”, usata con il suo senso tradizionale, pensando probabilmente al cane non ancora addomesticato, in preda all’istinto della fame… anche il Cerbero dantesco è un cane.

Nella canzone “Di troie e di cani” sono presenti due versi ricorrenti, “Son stanco e non so dormire,/ Son vivo e non so morire”, il cui significato necessita di approfondimento: non si riferiscono di certo alla necessità fisiologica di sonno e neanche al desiderio di morire… più probabilmente riguardano l’anima che non trova pace finché non riesce a compiere il suo destino nel mondo.

Un brano particolare è anche “Magdala”, che riprende il nome della cittadina di Israele in cui nacque la Santa Maria Maddalena, devota discepola di Gesù. È tutt’altro che facile cogliere il nesso logico fra questo titolo e i versi che compongono il testo poetico… Tutto sommato, sembra essere un omaggio in stile molto personale alla sensualità e alla misteriosa fecondità femminile: “la tua lingua silenziosa come una lumaca ansiosa”, “donna ritornata al ventre, messa al rogo dalla gente che non ha capito niente”, “custodisci il tuo lamento, mentre il sangue scorre lento”, “partorisci dolcemente un sorriso irriverente”… Nel quadro compaiono anche un rasoio, due coltelli e “del serpente la spirale fino a quando senti male”, sui quali presunti significati forse è meglio non indagare.

Musicalmente “Magdala” è una soave e delicata rock ballad, così come lo sono anche i brani “Candele”, “Giugno” e “Il sogno di un profeta”. I testi di questi ultimi sono formati da immagini (forse simboli) che appaiono incoerenti e difficilmente comprensibili, almeno a chi li ascolta nello stato di coscienza ordinario. In “Candele” c’è un po’ di tutto: un airone di cristallo, un mercante di corallo, una crisalide di vetro, la certezza della pena per dividere i giurati, un aruspice che si libra come un falco tra i serpenti, la luce che avvolge di oscura pietà… E mentre la vita gli “appare spietata bellezza”, all’improvviso l’autore afferma: “Sono il salmone esausto che risale la corrente,/ Sono l’orso affamato che mi attende”.

In “Giugno”, ci sono ancora delle allusioni a Gesù (“Il calice torto nel nudo dolore,/ Prendete e godetene tutti,/ È questo il Suo corpo, saccheggiatene i frutti!/ Prendete e godetene tutti,/ È questo il Suo sangue, disperdetene i frutti!”), mentre ne “Il sogno di un profeta” muore tutto ciò che può portare verso un ideale – “muore il canto di un poeta, muore il sacerdote esteta, muore il dio (il Dio?) della cometa, muore il sogno di un profeta” – e qualcuno, forse il diavolo, brucia l’anima.

Sulla copertina dell’album si trova un suggestivo disegno realizzato dal grafico Leonardo Bani, che ha accompagnato con opere originali tutte le uscite discografiche di Lorenzo Del Pero: un’immagine calda e rassicurante, per niente “horror”, in cui la madre e il bambino neonato raffigurati sembrano sollevati e illuminati dalle anime dei cari defunti. Forse con questa immagine in mente andrebbe ascoltato l’intero disco. (Magda Vasilescu)