recensioni dischi
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CCCP FEDELI ALLA LINEA  "Felicitazioni! 1984-2024"
   (2023 )

Scena prima.

Interno, giorno.

Anno del Signore 1988, circa marzo/aprile, non ricordo più bene, ma è una formalità.

Primo pomeriggio.

Ho sedici anni abbondanti, squilla il telefono. Non il cellulare, proprio il telefono col filo. E’ Luca. “Lo stai guardando?”, mi fa, con tono alterato. “D.O.C.?”, rispondo. “No, oggi non ho acceso”. “E allora accendi subito. SUBITO”, aggiunge con la reale perentorietà mascherata da finto piglio dittatoriale intransigente che è una delle sue tipiche espressioni. Prima che io possa chiedere qualsiasi cosa, mi ha già riattaccato in faccia. Non per cattiveria, giammai: piuttosto, per non perdersi un solo istante dello show che sta andando in onda su Rai2. Il programma – Dio lo benedica nei secoli dei secoli amen – è quello di Gegè Telesforo – Dio lo benedica nei secoli dei secoli amen (insieme a Carlo Massarini e a tutta Videomusic, tanto che ci siamo). Per gente come noi, che già da qualche anno mastica musica non proprio allineata, “D.O.C.” è una manna dal cielo. Accendo e vedo questi tizi, davanti ai quali rimango istantaneamente ed istintivamente senza parole. L’esibizione è già iniziata, in piedi attonito guardo ciò che ne rimane, impietrito. Luca me ne aveva parlato, di questi CCCP, ma non li avevo mai visti. Suonano punk, si presentano male. Tipo un’accozzaglia di tizi vestiti a caso, un po’ eccentrici, un po’ straccioni, del tipo che a quel tempo pensi: strafattoni dei centri sociali. C’è una tizia – di bell’aspetto, con una sua bizzarra eleganza – che dovrebbe essere una ballerina, ma per essere una ballerina si muove poco ed in modo inconsueto; c’è un altro tizio mezzo nudo agghindato in modo improbabile, il quale fa cose improponibili aggirandosi sinistro per il piccolo palco messo a disposizione; c’è il cantante che ha una voce strana e canta strano; l’insieme è decisamente kitsch, ma irresistibile. Ci sono due chitarristi, un bassista e una drum-machine. E’ punk, davvero. I testi sono a sfondo politico, o almeno lo sembrano, ma calcati, esagerati, sovraccarichi di immagini, proclami, slogan. Puro espressionismo, che mi lascia interdetto.

E’ solo un quarto d’ora, ma tanto basta: non riuscirò a studiare niente per tutto il resto del pomeriggio, né a focalizzarmi su altri pensieri al di fuori di ciò che ho appena visto.



Scena seconda.

Esterno, notte.

Venerdì 12 agosto 1988.

Lignano Sabbiadoro (UD).

Siamo lì in vacanza, Luca e io, con le nostre famiglie. A Lignano mi portano da quando ero bambino, Luca e i suoi sono solo al secondo anno. Luca è attento, guarda in giro dappertutto, sta informato. L’anno precedente avevamo fatto il nostro esordio ad un concerto, dando il via ad una vita di live: avevamo perso quel tipo di verginità allo stadio di Lignano, dove avevamo esordito con gli Spandau Ballet. Serata bellissima, va detto, e loro bravissimi, va detto. Bé, Luca arriva una mattina e mi mette in mano il giornalino in bianco e nero distribuito dall’azienda di promozione turistica locale, lo ha trovato alla reception dell’hotel. Me lo dà già aperto sulla pagina che ci interessa. “Non possiamo mancare. NON POSSIAMO!”.

Ci sono i CCCP allo stadio di Lignano. Allo stadio? “Ma non è gente da stadio”, dico. Luca li ha già visti mesi prima ad una qualche festa del Partito Comunista, e da allora non fa che parlarne con il genuino entusiasmo che si conviene. Affare fatto. Ci accompagna in auto mio padre, gli diamo appuntamento per tornarci a prendere. Fa buio tardi, quando entriamo è ancora chiaro. Nemmeno ci sediamo, stiamo già giù nel prato, ci guardiamo intorno per valutare le presenze e il tipo di pubblico, perché io proprio continuo a non spiegarmelo, come possano suonare ‘sti tizi in pieno agosto a Lignano Sabbiadoro, che è un posto da Spandau Ballet, per dirla tutta. Poca gente, qualche gruppetto di robbosi (mal)vestiti di nero con gli anfibi, qualche cresta punk, qualcuno con la maglietta dei Sex Pistols, altri con la maglietta dei Ramones. E qualche gruppo di curiosi, vacanzieri che passavano per caso, sì a un concerto passi per caso, credi che la beva? Eppure, sembrano la maggioranza. Gente in sandali e calzoncini corti, ragazze ben truccate e poco vestite, del resto siamo ad agosto, a Lignano Sabbiadoro, cosa ti aspettavi, Luca? “Più punk”, risponde con serietà alla mia domanda retorica. Poi, cala la sera. Ci facciamo un’aranciata, che a diciassette anni compiuti (diciassette anni del 1988…) con la birra e il resto ancora non abbiamo iniziato. Ci rifaremo abbondantemente, ma per ora va così. Sono circa le dieci, è buio, la gente inizia a rumoreggiare, perché insomma, abbiamo pagato (poco, va detto), siamo al mare, siamo qui a vedere questa roba invece di essere in pizzeria, allora, dai, era segnato alle nove e mezza e sono già le dieci, io volevo andare in disco e via così di lamentele varie, specie da parte una vistosa bionda niente male a tre o quattro metri da noi in compagnia di amici fighetti. Siamo fronte palco, ma ci teniamo staccati, ché con questi punkettoni non si sa mai cosa possa succedere lì davanti. Poi, come spettri, si materializzano loro dal nulla. La luce sul palco è debole, ma basta eccome per vedere che Giovanni Lindo Ferretti – così si chiama il cantante, mi dice Luca - sta sul lato sinistro, capelli rasati, solo una striscia centrale. Soprattutto, basta eccome per vedere che indossa un cappotto nero lungo fino alle caviglie. E’ il 12 di agosto. “Oh, comincia”, dice la bionda, già stufa. Ed inizia l’inferno.

In un timbro tra lo stentoreo e l’attoriale, Ferretti intona a cappella “Il testamento del capitano”. Me l’aveva detto Luca, che iniziavano così. Ma sentirla dal vivo – un canto alpino della prima guerra mondiale, il 12 agosto, a Lignano Sabbiadoro, allo stadio, da un tizio col cappotto – fa un effetto impressionante. Non accenna solo una strofa: la fa tutta, ma proprio tutta. Noi a bocca aperta, il gruppetto di robbosi approva, intorno facce disorientate. L’ultima sillaba risuona nel silenzio della sera estiva in modo quasi sinistro, poco prima che Ignazio Orlando – basso, tastiere e drum-machine – faccia partire il battito demoniaco di quella che solo poi apprenderò essere “Stati di agitazione”. Ancora oggi è un pezzo che mi atterrisce e che non riesco ad ascoltare, proprio mi spaventa. Dura cinque o sei minuti, col battito algido della ritmica sintetica che aumenta i bpm fino ad un climax insostenibile, e soprattutto col basso che mi rimbalza nello stomaco, sensazione che nel 1988 ancora non padroneggio, ma che amerò follemente nei decenni a seguire.

Luci che flashano impietose, rumore totale che nemmeno Tim Hecker, Ferretti dritto immobile nel suo angolo, sguardo allucinato nel vuoto, a latrare la sua litania sgolata. Col cappotto nero, il 12 agosto. Al mare. Fantastico. Il pezzo ad un certo punto, raggiunto un limite di bpm oltre il quale ci sono solo sordità o quiete, si placa d’improvviso, illudendo gli astanti. Alcuni dei quali si sono portati le mani sulle orecchie, bionda compresa. Ma siamo solo a metà del pezzo, come la nave che nella tempesta ha superato l’onda monumentale e si trova per qualche istante nella falsa calma che la separa dalla prossima. Perché il pezzo riparte, accelera, e ancora, e ancora, fino allo stordimento uditivo, in un incubo senza fine. La bionda si è stretta a quello che penso essere il suo ragazzo, o magari è solo un riparo occasionale dalla flagellazione. Il ritmo cessa gradualmente, ma la musica no: dalla saturazione totale di quella tortura emerge un organo chiesastico che si prende la scena, mentre il resto degli strumenti tacciono poco a poco. E Ferretti intona un canto in latino, quasi fosse un rito di purificazione da un esorcismo. Apprenderò poi trattarsi di “Libera me domine”. Canto alpino, seguìto da tormento indescrivibile, seguìto da canto ecclesiastico. In latino. Non sono neanche le dieci e un quarto, e giuro che la bionda sta piangendo. Se ne va subito dopo, con tutto il suo gruppetto. Vedo Luca che sorride beffardo nel buio che ci avvolge. Non che noi stiamo proprio benissimo, ma il fascino oscuro della cosa prevale sullo shock emotivo. Per fortuna poi attaccano quella che scoprirò essere “Per me lo so”, e da lì in avanti sarà una passeggiata di salute. A tutt’oggi, uno dei concerti più memorabili in una vita intera.

E’ solo un’ora, forse un’ora e un quarto, ma tanto basta: non riuscirò a pensare a niente per tutto il resto della sera e della notte, trascorsa insonne con fischi e martellamento nelle orecchie, né a focalizzarmi su altri pensieri al di fuori di ciò che ho appena visto.



Scena terza.

Esterno, giorno.

Inizio settembre 1988.

Ancora qualche giorno alla ripresa della scuola. Sono sull’autobus 43, quello che fa capolinea in piazza San Marco, a cento metri da Arkadin Dischi, uno dei miei templi, il luogo deve credo di avere speso in assoluto più soldi in tutta la vita. Ho in tasca il walkman, al tempo avevo un bellissimo Sony nero che ho a malincuore buttato in ricicleria AMSA l’anno scorso.

Scendo dal bus, copro di corsa la breve distanza dal negozio, entro eccitato. Mi dirigo allo scaffale delle musicassette, la cerco come acqua nel deserto. Si intitola “Socialismo e barbarie”, mi ha detto Luca. Non c’è. Riguardo. Niente. Chiedo al commesso, che scuote la testa con l’aria perplessa di chi ignora l’argomento. Cerca sul computer: niente. Ma che faccia delusa, reciterebbe la Stuzziker oggi. Me ne vado con la coda tra le gambe, ma non posso mollare. Mi faccio a piedi via Pontaccio, arrivo a Lanza con passo speditissimo, proseguo su Piazza Castello, poi supero Cadorna, dai che ci siamo quasi. Ed eccomi al secondo tempio, quello dove – timoroso, imberbe ed implume, io ragazzino tra gente ben più stagionata di me – non più tardi di qualche mese prima avevo debuttato nella serie A dei negozi di dischi, acquistandoci pure una cassetta (era “Darklands” dei Jesus & Mary Chain, che paura nell’avvicinarmi al bancone, con quei commessi così austeri!): Buscemi Dischi, corso Magenta, sull’angolo, vicino al fioraio. Dritto alle musicassette. C’è. Ovvio. Vado spavaldo al bancone, pago contento. Sempre appoggiato al bancone, ma un po’ di lato per non infastidire i commessi austeri, sbuccio la cassettina, sniffo la copertina come di consueto (manifestavo già da parecchio i segni patologici della dipendenza da dischi), la infilo nel walkman e premo play un attimo prima di lasciare il tempio. L’emozione di riconoscere in cuffia i pezzi ascoltati in QUEL concerto fu unica. Non c’erano internet, youtube, spotify, e queste erano le vere soddisfazioni: sentire una canzone in un concerto, correre a comprare il disco e trovarci proprio quella precisa canzone, dopo avere sperato che ci fosse senza la certezza che ci fosse. Al tempo, toccava riavvolgere il nastro. I lettori migliori scattavano al salto di traccia, il mio no, ma era comunque bellissimo, l’ho già detto: aveste visto che design, una meraviglia. Rifaccio la strada a piedi fino a Lanza, rimandando per non so quante volte i primi quattro brani. Il quinto e il sesto sono “Stati di agitazione” e “Libera me domine”, che riconosco ed ascolto una sola volta. Riavvolgo, riparto, mi fermo a “Rozzemilia”, perché quell’accoppiata non la reggo.

E’ solo una musicassetta, ma tanto basta: non riuscirò a studiare niente per tutto il resto del pomeriggio, né a focalizzarmi su altri pensieri al di fuori di ciò che ho appena ascoltato e che continuerò a riascoltare fino a tarda sera.



Scena finale.

Interno, sera.

Anno del Signore 2023.

Sto cucinando, in cuffia gira “Felicitazioni! 1984-2024”, album antologico dei CCCP, quarant’anni ab urbe condita, trentacinque da Lignano Sabbiadoro, trentatré dallo scioglimento. CCCP che non ci sono più dal 1990, forse anche dall’anno prima, ma che sono tornati a farsi rivedere di recente con la più estemporanea ed inattesa delle reunion, in concomitanza con la mostra retrospettiva “Felicitazioni! CCCP – Fedeli alla linea 1984-2024” presso i Chiostri di San Pietro di Reggio Emilia e con l’evento celebrativo – denominato Gran Galà Punkettone - al Teatro Valli, sempre nel feudo natìo.

E mentre cucino e ascolto per la milionesima volta pezzi che conosco a memoria da un’eternità, scopro che, nonostante ciò, mi fanno un effetto diverso e che oggigiorno il verso immortale aspetto un’emozione sempre più indefinibile riesce quasi a commuovermi, proprio come il rallentamento incupito di “Depressione caspica” o il finale congesto di “Svegliami”: come se servissero a prendere coscienza dell’ineluttabilità del destino, dell’infinita vanità del tutto e della deriva delle cose, ché l’Apocalisse è quello che c’è già.

E intanto Videomusic non c’è più, Arkadin Dischi non c’è più, Buscemi Dischi non c’è più, programmi come D.O.C. non ci sono più, la musicassetta di “Socialismo e Barbarie” non ce l’ho più (l’ho dovuta buttare perché mi si era bagnata durante un’esondazione del Seveso, la tenevo in cantina, me sciagurato!), Ferretti è da lunghi anni un eremita cattolico, Annarella è sempre bellissima anche coi capelli non tinti, Fatur è il solito svitato, solo un po’ sovrappeso, Zamboni è la mente, il motore, il regista. Ignazio Orlando e Carlo Chiapparini un po’ mi mancano, lo confesso. Il Comunismo è rimasto nei libri di storia e nel cuore di pochi irriducibili, la questione palestinese ribolle di sangue, produci/consuma/crepa è tuttora di grande attualità, “Amandoti” è diventata fin troppo famosa, e purtroppo in questo momento Jurij sta sparando, eccome.

Se trentacinque anni fa mi avessero detto che sul finire del 2023 i CCCP sarebbero stati ancora nella memoria collettiva e - nella realtà, nell’attualità – una sigla ben più che iconica sopravvissuta ad un tempo cattivo e amaro, avrei riso, scettico. Ora, di fronte all’evidenza, mi limito ad una beata incredulità, che associo ad un classico io c’ero, io li ho visti, anche se una cosetta ancora non l’ho capita: come possano quegli stessi ragazzi immaginari che vidi nel 1988 essere diventati il simulacro che sono oggi. Sembravano dei teatranti, con gli occhi di allora. Grandiosi, per un diciassettenne off del 1988, ma dei teatranti, ed il loro show una farsesca pantomima sovraesposta. La spiegazione che Luca continua a darmi è che erano degli illuminati, e noi – io di sicuro - non eravamo in grado di coglierne appieno il messaggio: da me scambiati per grotteschi personaggi, erano invece avanti anni luce.

I CCCP sono una cosa seria, maledettamente seria, ora come allora.

E Luca aveva ragione, ancora una volta. (Manuel Maverna)