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PEPPE VOLTARELLI  "La grande corsa verso Lupionòpolis"
   (2023 )

Sono tempi duri, c’è gente cattiva. Si litiga per tutto, si discute per niente, si corre senza sapere necessariamente dove né perché. Ogni tanto – faut le dire – ci vuole un po’ di sentimento. Che non guasta né nuoce: ben venga l’abbandono, benefico e ristoratore.

E quanto sia benefico il sentimento – vero, schietto, sincero senza possibilità di inganno o smentita – che trasuda da questi trentacinque minuti di musica bella, è un’esperienza da provare.

Registrato a New York da Marc Urselli nell’EastSide Sound di Manhattan, “La grande corsa verso Lupionòpolis”, su etichetta Visage Music, è il settimo album solista di Peppe Voltarelli, uno che non ha bisogno di presentazioni, molte vite alle spalle ed altrettante che gli si augura. Una carriera da incorniciare: fondatore e leader de Il Parto Delle Nuvole Pesanti, la Targa Tenco per tre volte in bacheca, attivo nel cinema come sui palchi di mezzo mondo, intrattiene da sempre il suo devoto uditorio con la fervida sagacia dei mestieranti di lungo corso, impastando canzone d’autore e schegge di folk variegato, talvolta brillante, altrove melanconico o amaro, spesso semplicemente traboccante di quel sentimento di cui si diceva, verace e ruspante, eppure elegante e denso, peculiare marchio di fabbrica.

La sua è arte al contempo alta e povera, capace di scavare nel profondo di cultura e tradizione (memorabile la rilettura del repertorio di Otello Profazio datata 2016), ma con un occhio al divertissement, che a questo milieu – vedi la boutade di “Mozza” – perfettamente si sposa. Nell’inconfondibile timbro arrochito, vanno in scena con incalzante frenesia gli irresistibili sketch swing di “Au cinema”, “Spremuta di limone” e “Bon bon bon”, un po’ Buscaglione, un po’ Paolo Conte; ma c’è spazio – e molto - per episodi intensi e carichi, dall’opener “Mareniro”, vibrante affresco di natura tempestosa, al cupo incedere in minore di “Nun signu sulu mai”, da quella piccola meraviglia che è “Fiore”, languida e intima, un filo sospeso sui labirinti dell’anima, alla tensione - sottolineata dal contrappunto degli archi - di “Marinari perduti”, fino al commiato gentile e toccante di “Carizzi”, canzone della buonanotte, appassionata lovesong, slow senza tempo e senza età.

Tra echi di Capossela, Mannarino, Basile, la scena se la prende tutta lui, con la sua musica viscerale ed autentica, anche nella title-track strumentale che ricorda Nino Rota, ma che è solo – una volta di più - Peppe Voltarelli in purezza, autore prezioso e defilato, padrone assoluto del suo mondo appartato, paradossalmente così vicino alla fama che merita, così lontano dal clamore che volentieri rifugge. (Manuel Maverna)