recensioni dischi
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YES  "Close to the edge"
   (1973 )

Il progressive rock in una delle sue massime espressioni, al massimo dei suoi pregi e al minimo dei suoi difetti. "Close to the edge", definito al suo apparire, nel 1973, "il disco giusto al momento giusto", è la quintessenza del progressive: in particolare l'omonima suite di 18 minuti, che occupava interamente quello che era il lato A del disco, si accosta alle consorelle "Supper's ready" dei Genesis e, perché no, al "Giardino del mago" del Banco (tutte e tre dello stesso anno) a definire i parametri del genere: complicate architetture sonore, grande perizia strumentale per edificarle e il tempo necessario per esplorarne tutti gli anfratti. Questo era il rock progressivo, spesso poi tradito da chi pensava che bastasse uno solo di questi elementi (pallosi brani chilometrici, astrusi arzigogoli strumentali o sterile virtuosismo fine a sé stesso) per emulare Yes o Genesis. Qui invece i 18 minuti di "Close to the edge" scivolano via: certo esigono un'attenzione un po' superiore a quella richiesta da Britney Spears, per dire, ma quasi non ci si accorge di quanto siano bravi Howe, Squire, Bruford, Wakeman e Anderson, quanto sia complesso ciò che stanno raccontando: il piccolo miracolo sta proprio nel fatto che ciò che arriva è l'emozione, prima dell'ammirazione per il virtuosismo. Come quando ammiri un Van Gogh e quello che vedi ti parla al cuore e solo dopo molto tempo (e forse mai) inizi chiederti come avrà mai fatto il pittore a stendere quelle pennellate. Quanto detto per "Close…" vale anche per le quattro parti "And you and I" giocata a rimpiattino tra chitarra acustica e tastiere, e per la magniloquente (forse addirittura all'eccesso) "Siberian Khatru", costruzione di splendore fin abbagliante. Tutto ciò al primo ascolto, ma come ogni opera veramente importante, anche questo disco si rifiuta di rivelare di sé tutto e subito. Sono gli ascolti ripetuti che rivelano il rincorrersi e il ritornare dei temi, le loro variazioni, le loro progressioni, gli arditi ricami della batteria di Bruford, le mille soluzioni di Wakeman… E' un'analisi attenta che permette di scoprire i segreti celati dal primo impatto, i tanti piccoli particolari sonori cui il digitale ha restituito evidenza e brillantezza. Sarebbe assurdo pensare di farlo su un disco di oggi, ma allora certi lavori richiedevano questa attenzione, questo amore, e ripagavano con grandi emozioni. Oggi le emozioni, quando ci sono, sono più immediate e non è neanche detto che sia un male. Chissà… Ma all'inizio parlavamo anche dei difetti. Certamente la voce di Jon Anderson è tra le più glaciali della storia del rock, certamente tanta ricchezza ascoltata oggi (ma non allora, e questo la dice lunga su quello che ci propinano adesso) finisce per stordire, ma la costruzione offerta da questo disco rimane una architettura di cristallina bellezza contro cui il tempo nulla ha potuto. (www.luciomazzi.com)