recensioni dischi
   torna all'elenco


LETIZIA DEI & MICHELE PAPADIA  "The revivalist"
   (2023 )

L’album “The Revivalist” nasce dalla collaborazione di Letizia Dei e Michele Papadia, entrambi musicisti con un elevato livello di preparazione culturale e accademica, offrendo un’interpretazione originale, in chiave classica e jazzistica, di alcuni famosi inni e spirituals appartenenti alla tradizione afroamericana di fine Ottocento. Un lavoro per niente facile, visto il grande valore storico, artistico e religioso dei brani considerati.

Il disco può essere una fonte di cultura musicale poiché, già a partire dai titoli dei brani, l’ascoltatore risale alle versioni storiche interpretate da cantanti, cori e orchestre di spessore internazionale; e, attraverso l’evocazione delle ingiustizie subite nel passato dagli schiavi afroamericani, può svolgere anche un importante ruolo educativo, nel senso dell’antirazzismo e dell’opposizione allo sfruttamento del lavoro umano in generale.

Fin dai brani iniziali, ma soprattutto nell’ultimo, eseguito con la voce e con l’organo Hammond, si nota un abbinamento armonioso e naturale tra la voce e lo strumento. Infatti, la grafica della copertina del disco, un’allusione abbastanza esplicita all’amore erotico tra donna e uomo, esprime a livello visivo questa fusione quasi perfetta… anche se, considerata la tematica sociale e religiosa dei canti, tale immagine potrebbe sembrare non proprio adatta.

Il soprano Letizia Dei colpisce con la sua voce fresca e al contempo drammatica e pungente, ricordando in qualche modo la voce di Kate Bush, e con uno stile di canto che sembra contraddistinguersi per il crescendo e il vibrato sulle vocali aperte sostenute.

Il pianista Michele Papadia gioca elegantemente con gli accordi jazz e blues, intervenendo sia per accompagnare la voce, che in brevi parti solistiche denominate “Piano Reprise” (una ripresa con variazioni sul tema melodico di alcuni brani) e “Piano Intro” (introduzione solenne al canto ''Were You There'').

Rispetto alle versioni tradizionali dei canti, quelle proposte da Letizia Dei e Michele Papadia presentano forse una minore varietà di ritmi e di stati d’animo; sono probabilmente più “cerebrali” e meno emozionali. Per esempio, brani come ''‘Tis So Sweet To Trust In Jesus'' oppure ''Over My Head'', i cui testi mettono al centro la riconoscenza per la grazia ricevuta e la speranza nell’esistenza di Dio, dovrebbero esprimere vitalità e ottimismo, diversamente da ''Lord How Come Me Here'', un grido di disperazione che ricorda il drammatico pensiero del suicidio. Sarebbe inoltre consigliabile, in ''Go Down Moses'' oppure in ''Over My Head'', il mantenimento del dialogo domanda/risposta caratteristico dei canti gospel tradizionali, eventualmente avvalendosi dell’aiuto di una piccola corale.

Per quanto riguarda l’aspetto linguistico, in almeno due dei brani si notano alcune inesattezze di pronuncia della lingua inglese, come potrebbe essere, per esempio, l’articolo indeterminativo fuori luogo che si sente in ''Deep River'' (“Deep river, my home is a over Jordan”), oppure l’uso abusivo del suono ''h'' all’inizio di parole che cominciano con vocali, in ''‘Tis So Sweet To Trust In Jesus'' (“’Tis so sweet to trust in Jesus, just to take Him hat His Word” oppure “Jesus, Jesus, how I trust Him! How hi’ve proved Him ho’er and ho’er”).

Tra l’altro, il testo di ''‘Tis So Sweet To Trust In Jesus'' viene molto modificato rispetto a quello tradizionale cantato dalla maggior parte dei cori e degli artisti singoli: la versione proposta da Letizia Dei e Michele Papadia conserva solamente il testo della prima strofa e del ritornello, le altre tre strofe essendo sostituite da una completamente diversa, le cui parole risultano difficilmente comprensibili.

Fra tutti i brani presenti sull’album, l’ultimo, intitolato ''Nobody Knows'' (titolo originale: ''Nobody Knows The Trouble I’ve Seen'') potrebbe diventare un cavallo di battaglia di Letizia Dei e Michele Papadia… innanzi tutto grazie alla versione tradizionale molto melodica e ricca di sentimento (che ispirò anche Mahalia Jackson, Louis Armstrong e altri), ma anche per via del modo in cui la voce e l’organo Hammond riescono a vibrare e a fondersi insieme. (Magda Vasilescu)