recensioni dischi
   torna all'elenco


RITUAL HOWLS  "Virtue falters"
   (2023 )

Per i nuovi adepti, questo disco e questa band rappresenteranno una scoperta tanto gradita da risultare addirittura imprescindibile; per noi nostalgici che già c’eravamo, in fondo niente di nuovo, ma non si cambia mai davvero. Bastano i primi dieci secondi dell’opener “Dark Ceiling in Tennessee” per riaccendere – o per rispegnere, fate vobis – la luce che fu: rispolveriamo dunque ben volentieri i nostri paludamenti noir, cari figli delle tenebre, quelli che usavamo indossare quando parlare di dark aveva ancora un senso, quando ci mettevamo il rossetto viola, le Dr. Martens e il trucco sugli occhi per assistere ad un concerto di qualche sacerdote di quel culto oscuro e sotterraneo che ci rallegrava nella depressione.

Di tanto in tanto, fanno capolino dal buio sparuti superstiti o epigoni – imitatori, emulatori, o solo devoti - dello splendore rovesciato che fu, rivestendo il post-punk – che è tutto e niente, ma principalmente tutto – di una patina di pece mai così gradita: gli officianti del momento sono i Ritual Howls, prolifico trio di Detroit formato nel 2012 da Paul Bancell (voce, chitarra), Chris Samuels (synth, samples, ritmi e orpelli demoniaci assortiti) e Ben Saginaw (basso), giunto con “Virtue Falters” – su etichetta Felte - al quinto album di una carriera rispettabile e coerente.

Otto tracce, ventinove minuti a senso unico, sovraccarichi di ogni ingrediente indispensabile a garantire la riuscita della ricetta: synth onnipresenti, basso pulsante, chitarra flangerata, drum machine algida, voce baritonale dalle profondità di un inferno a caso, testi che lambiscono il macabro in diverse occasioni, ma sempre con misura e non senza un’eleganza curiosamente ammaliante, filosofeggiando amari sulla vita ed il suo opposto.

L’album è a tal punto esplicito nei suoi riferimenti da indurre, per ogni brano, ad un’appagante ricerca dell’accostamento con un nume tutelare che funga da guardia e garante: avanti, dunque, con echi di Bauhaus (“My trash mind”) e Cure (“Barely a shadow”, vicina pure a certe atmosfere dei più recenti Numb.er), con inequivocabili tracce dei Depeche Mode pre “Music for the masses” (“Goodnight reason”, “Tomb room”), bordate che ricordano i Jesus & Mary Chain di “Honey’s dead” (“Humiliation”, non così lontana neppure dai Membranes) e melodie falsamente accomodanti incorniciate da un gelido beat à la New Order (“Kneel for instruction”).

Chiude – maestoso, imponente, saturo ed incalzante – il requiem a passo spedito di “Cauterize my eyes”, al quale manca solo il crooning mortifero di Andrew Eldritch per suonare come un’outtake di “Flood”: è una scarna, realistica riflessione quasi leopardiana sul senso ultimo delle cose, pochi versi incisi nella pietra a ricordare quello che si cerca ostinatamente di dimenticare, porta spalancata sul gorgo che tutto inghiotte, un abisso di anime perdute, senza redenzione. Naufragio dolcissimo, ça va sans dire. (Manuel Maverna)