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THE POISON ARROWS  "Crime and soda"
   (2023 )

Per chi si aggira sulla cinquantina, fa piacere ritrovare frammenti di quello che una trentina di anni addietro si chiamava post-rock. Da non confondersi con l’odierna accezione del termine, in legame di parentela ben poco stretto con l’originaria.

Il post-rock di Slint & co. era un’operazione concettuale di destrutturazione del rock tradizionale, una piccola rivoluzione che conservava intatta la strumentazione prevista dal canone (basso-chitarra-batteria-voce), alterando sia l’impatto emotivo (gelido, anziché focoso) sia la forma-canzone tradizionalmente associata al rock-as-we-know-it. Il risultato dell’operazione - colta, intellettuale - era spiazzante: maltrattando la sacralità del rock, gli sottraeva ogni appiglio, lasciandolo nudo, zoppicante, fastidioso. Soprattutto, lo costringeva ad implodere di continuo su sé stesso, anziché concedergli di deflagrare come da copione.

Fedelissimi alla linea, The Poison Arrows da Chicago hanno conservato negli anni l’approccio spigoloso che definì il genere, arricchendone le trame con una decisa connotazione math, giocando sui tempi e sugli incastri con chirurgica precisione, di fatto replicando il modus operandi adottato nei diciassette anni e cinque album della loro fulgida parabola.

Pubblicato per Solid Brass Records, “Crime and Soda” segue di poco più di un anno il travagliato “War regards”, che dovette attendere a lungo per vedere la luce: pronto per l’uscita all’alba della pandemia, fu posticipato di un anno, infine distribuito proprio il giorno stesso dello scoppio del conflitto russo-ucraino, con bizzarro, sinistro tempismo.

Nell’abituale formazione a tre, immutata dalla fondazione, Patrick Morris (basso), Adam Reach (batteria) e Justin Sinkovich (voce, chitarra, tastiere) ripropongono il consueto menu a base di tempi dispari, cadenze zoppicanti, trucchi e magheggi sparsi ovunque come trappole a definire il perimetro di un percorso ad ostacoli. A condire degnamente questi brani tesi, intensi, cerebrali, sono i testi: contorti, dotti, intrisi di dubbi esistenziali, politica, spy-story, somigliano a spaccati minacciosi di un mondo marcio, rappresentato nelle sue infinite turbe quotidiane, una pulsante narrazione per immagini vivide, presagi inquieti, scenari iperrealisti o – paradossalmente – visionari.

Restano nove brani per trentasei minuti portati a spasso da melodie uccise sul nascere, nella migliore delle ipotesi nascoste dietro qualche paravento, per naturale ritrosia nei confronti della fruibilità più accessibile: nervoso, brusco, scosso dalla frammentazione continua della ritmica, da stop-and-go singhiozzanti (“Glassed by the gilded age”), da controtempi, sincopi e piccola violenza compressa, l’album martella compatto la sua grigia litania, tra echi di June of ’44 (“Mercurial Moments Erased”) e Disappears (“All These Kids”), Three Mile Pilot (“Asynchronous Empire of Isotopes”) e Preoccupations (“Consequences of Memory”), senza mai perdere il tiro, scambiando solo sporadicamente qualche timido segno di pace (“Crime and Soda”). Chiude “Sharp Young Teeth”, finale ondivago à la Polvo che riscrive in poco meno di quattro minuti la storia – interrotta – di un genere che sembra oggi così vicino, così lontano. (Manuel Maverna)