recensioni dischi
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MATT ELLIOTT  "The end of days"
   (2023 )

Non ricordo esattamente quando piansi l’ultima volta, ma era una sera che pensavo a mia mamma, mentre cucinavo delle costine. Non so, caddi sotto il peso di una malinconia trattenuta forse troppo a lungo, ma la goccia che fece traboccare il vaso fu che indossavo le cuffie e stavo ascoltando Marc Almond, muovendomi tra i fornelli. Marc Almond – che amo tanto quanto Del Piero, Marylin Manson e Jacques Prevert – ha sempre avuto sulla mia psiche e sul mio cuore romantico un effetto dirompente, non ne abbiamo colpa né io né la povera mamma. Ecco, quella volta – relativamente recente – da adesso sarà la penultima. A farmi scendere una sincera lacrimuccia - mentre violentavo un file excel nell’interminabile smart working che dura dal 21 febbraio 2020 – è stato il signor Matt Elliott, Dio lo benedica per quest’anima pesante contro il cielo.

Al crocevia tra le cose più tristi e depresse di varia provenienza che vi possano venire in mente – rebetiko, klezmer, morna, fado, balkan folk –, Matt Elliott è oramai una garanzia di perenne afflizione: un’afflizione imperante, di quelle così profonde da crogiolarcisi in certe perfette giornate di pioggia, fredde e buie già alle quattro di pomeriggio, stesi sul letto in un dormiveglia sovraccarico di pensieri altrettanto grigi, eppure stranamente morbidi. Adesso siamo a giugno, c’è il sole e fa già parecchio caldo, ma l’effetto è garantito, nonostante queste avverse condizioni meteo, che vorrebbero indurre a spensieratezza e lievità.

Lontanissimo dall’elettronica della prima fase targata Third Eye Foundation, in verità non così distante dal mood della rentrée del 2010 e del richiamo del 2018, probabilmente svincolato anche dal se stesso dell’ultima reincarnazione datata 2020, “The End of Days” - ancora sulla fidata label Ici D’Ailleurs - riesce a sublimare quella vena sepolcrale mai realmente passata sottotraccia, qui elevata a livelli emozionali eccelsi grazie all’impiego massiccio delle consuete tonalità crepuscolari e di strumenti particolarmente adatti ad esprimerle in purezza.

Sei lunghe tracce delineano il percorso e dettano la cadenza, segnata dalle note sgranate in punta di chitarra, dalle frequenze umbratili del contrabbasso di Jeff Hallam, dall’ondeggiare del sax, dai ricami del pianoforte di David Chalmin, dal baritono di Matt - grave e oscuro, sovraccarico, intriso di una mestizia talora quasi insostenibile. Da qualche parte tra Leonard Cohen, Mark Lanegan, Will Oldham e Mark Kozelek, Matt Elliott realizza uno statuario capolavoro di intimismo introverso, squarciato da effimeri lampi di luce fioca (il languido strumentale d’antan “Healing a Wound Will Often Begin With a Bruise”, con Nino Rota sullo sfondo), affidato per la restante parte ad un oceano di contrizione che sa di occasioni perdute, di affetti smarriti, di anime volate via.

Aperto dai dieci minuti della title track, virata ben presto da maggiore a minore e risolta in una toccante trenodia tra umori yiddish e canto sommesso à la “Private Investigations”, l’album conserva intatta un’aura tanto dimessa quanto avvolgente; mai sinistro né opprimente, si concede ad una dilagante melanconia, condensata in testi sì brevi ed essenziali, ma intensi e lapidari quanto basta a fungere da corollario ad una musica sofferente e addolorata.

Diretto, frontale, confidenziale come un abbraccio sincero alle esequie di un caro estinto, procede ad occhi bassi lungo un cammino lastricato di desolazione, tra la lamentazione quasi ieratica di “January’s Song” ed il radicato scoramento di “Song of Consolation”, raggiungendo l’acme nei dodici minuti e mezzo di “Flowers for Bea”, condotta al passo rallentato di un funerale a New Orleans.

In coda, restano i pochi versi di “Unresolved” a vergare un’epigrafe non definitiva, forse un messaggio di flebile speranza rivolto a sé, forse soltanto l’ennesima constatazione della caducità delle cose: when will I see your shadow again/fleeting across my wall/when will my sleep be troubled again/by the creak of your feet as they fall.

Da qualche parte, qualcuno piangerà. (Manuel Maverna)