ELLEN RIVER "Life"
(2023 )
Questo disco è un elogio della bellezza. Una bellezza comune, fatta di poche cose. Eppure addirittura statuaria, a tratti.
Essenziale nella sua delicata semplicità, con garbo e misura impiega svariati strumenti in canzoni sì lineari, ma forti di un suono ben definito e di un’ispirazione che non flette mai. In cotanto milieu, spicca l’atout centrale: una voce limpida, vibrante e carica, che porta con sé decenni e decenni di roots music d’oltreoceano, mandata a memoria e riproposta con rara sensibilità.
La voce, l’anima ed il cuore appartengono ad Elena Ortalli, emiliana, in arte Ellen River, esordiente nel 2013 come leader di Elena & The Seekers con le nove tracce di “Otis”, seguite dal debutto in proprio di “Lost souls” nel 2018. “Life” raccoglie il materiale scritto nel corso dell’ultimo anno e stipato in una summa sì ponderosa e discretamente mastodontica, eppure fluida e scorrevole come un fiume placido che attraversa la pianura. E’ un’autoproduzione, ragion per cui Ellen può concedersi il lusso di infischiarsene altamente di costrizioni, ragion di Stato e regole di mercato: nella valigia infila ventisette canzoni, che sono il suo mondo al completo. Alla faccia del si era sempre fatto così, si era sempre fatto uno per volta, “Life” è un doppio album di ben ottantacinque minuti, fucina di idee e creatività nella quale si fondono stili e idee ereditati dal cosmo a stelle & strisce, da cui discendiamo (più o meno) tutti.
Country, blues, folk - ed ogni loro combinazione - forniscono la materia prima, alla quale Ellen dà forma assecondando l’estro del momento, permeando di sé brani concisi, efficaci, diretti ed incisivi, in uno show pulsante aperto dalla cadenza quasi waitsiana di “Blues for G” e chiuso dall’arpeggio bucolico à la John Denver di “Gonna sleep with my dreams”. Nel mezzo, c’è posto per tutto: per il ballabile languido di “I see” e per il mid-tempo di “Better than me”, che alza il ritmo e produce uno dei groove più memorabili dell’intero lavoro; per l’eco di Lucinda Williams sia in “Double trouble” che nell’imperiosa title-track col suo chorus sontuoso; per il country di “Make it right” e per il gospel di “Farewell”, che sfocia in un’inaspettata aria bluegrass. E ancora: memorie di Joan Baez (“Still learning”), tentazioni di line-dance (“Inside a picture”, con bella lap steel ed altro ritornello catchy), adorabili ballate folk che ricordano Vanessa Peters e Marissa Nadler (l’ampia melodia di “The wheel”, il passo laid-back di “Lucy”, la mesta aria in minore di “I’m ready”), qualche scintilla di sano r’n’r, che ci sta bene comunque (“Nobody answers”).
Tra omaggi devoti alla tradizione – toccante lo slow à la Mary Gauthier di “Renata”, con spazzole e pianoforte a ricamare - e concessioni non infrequenti ad un raccolto intimismo (“Once again”, “Pirates routes”), spiccano alcuni episodi meno allineati: le suggestioni morriconiane dello strumentale “Resonance”, le marcate inflessioni à la Tori Amos di “Electroshock”, l’intro a cappella di “This time around”, l’incalzante crescendo – vocale ed emotivo, sottolineato dal violino – di “Would you”, l’indie-rock (sic!) di “Out of the storm”, col canto che abdica ad uno spoken-word tanto inatteso quanto intrigante.
Un’ora e mezza di musica senza tempo, talvolta confidenziale, altrove appassionata e viscerale, sempre confortevole come un riparo nella tempesta. (Manuel Maverna)