DIPLOMATICS "Is it time to fly?"
(2023 )
La vera rivoluzione è vincere la staticità, alzarsi dal divano ed urlare al cielo ciò che si pensa. E, partendo da questo dogma ideologico, il sestetto dei Diplomatics non ci pensa più di tanto a scodellare ancora bile allo stato puro con il terzo lavoro “Is it time to fly”?, a cinque anni da “I lost my soul in this town” ed a otto da “Don’t be scared, here are the Diplomatics”.
Al decimo anno di attività, il combo rivendica fieramente la libertà d’espressione, con quel giusto livore che serve per prendere di petto questioni sociali aperte e lanciare invettive schiette contro l’ipocrisia di potere. L’album è l’ennesimo eco della pandemia, concepito tra i boschi veneti per assorbirne tutta l’ispirazione, lontano da rumori ed influenze negative.
La griffe dell’opera poggia su base punk, con varianti di funk e garage, e tutto si consuma in meno di mezzora, con brani tendenzialmente corti, come richiede la tradizione di genere. Ci troviamo al cospetto di una “Jungle” sonora , che ondeggia con liane dal piglio tosto, e la scelta di eleggerlo a singolo sembra molto centrata, cosi come “Back to you” e “Go high”, che non ti lasciano tirare il fiato neanche se li preghi in cinese, con le guitars che ruggiscono su rettilinei corrosivi senza pietà.
L’inventario esecutivo comprende anche i punk-blues di “Irish Whiskey” e “Nevah”, dettati sempre e comunque da linee percussive e declamatorie, il filtrato sciame assemblativo di “You’re nothing”, e l’irrefrenabile “7 notes”, strisciato da un narrato à là Lou Reed. Per chiudere col botto, i ragazzi ti sparano il rock’n’roll-blues della lunga “Dancing all alone”, tanto per ribadire che, loro, se la cantano e se la ballano da soli, e chi vuole seguirli, ben venga. In caso contrario… ciccia!
Loro vanno avanti a vele spiegate, asfaltando giudizi, ostacoli, pregiudizi a tutti i costi, infischiandosene di pagare dazio, riaffermando l’indistruttibile anelito di combattere per un mondo più sano e giusto. Missione compiuta. (Max Casali)