GIANNI CARLIN  "A caccia di vento"
   (2025 )

Cos'è la poesia, o meglio, cosa può essere? Nulla di etereo per forza, quello è un cliché. La poesia innanzitutto è un metodo di organizzazione delle parole, sia per quanto riguarda (ovviamente) la forma, sia per quanto riguarda la gestione dei contenuti e delle sensazioni che suscitano nel lettore, guidandolo nella direzione che il poeta stabilisce.

Gianni Carlin con le parole ci sa proprio fare. In passato, rovesciando la lettera p, ho scritto che la sua non è “poesia pura”, ma “poesia dura”. Ribadisco questa definizione ascoltando ad esempio “Cemento”: “Non voglio finire prigioniero / di gente che ha colate di cemento / a riempire l'incavo del petto / dove dicono stia il cuore”. Il modo in cui dispone le parole è provocatorio, e creano situazioni tanto surreali quanto urticanti.

“A caccia di vento” è un disco autoprodotto da Carlin, uscito assieme al suo libro di poesie “Machinalis”. Il sound è pressoché coerente e uniforme negli otto brani che formano la scaletta dell'album: Gianni suona il flauto traverso, costruisce ritmiche di batteria elettronica dal suono pesantemente elaborato, fino a sembrare spesso impulsi 8 bit; incide riff di chitarra distorti e canta le sue poesie su melodie principalmente costruite sulla scala blues, alternandosi a fasi in spoken word dalla voce ipercompressa. Questa è la soluzione sonica in cui siamo immersi per ascoltare le sue riflessioni.

“Fiori di lillà” è una breve introduzione che ammonisce sulla mancanza di responsabilità degli individui, concetto che torna più avanti nel tentativo di “scaricare sugli altri le proprie colpe” (“Osservazioni d'un mezzobusto”). Poi arriva la suddetta “Cemento”, a mio avviso uno dei brani di punta del disco, che anche se non esplica la direzione del proprio lamento, sapendo da dove scrive Carlin (provincia di Belluno) non fatico a immaginarmi certe imprese senza scrupoli, che cementificano e appiattiscono quei grandi paesaggi.

“Rimpiango quel panino con la salsiccia”, ripete più volte Gianni ne “Il disastro dei miei sogni”, incentrata su un distacco dalla persona amata partita in treno. La pensilina, che poteva essere solo lo sfondo della vicenda, diventa protagonista del testo. Noto diversi cambi di tempo nei brani, eredità degli ascolti progressive dell'artis... del poeta. Dimenticavo, Gianni Carlin spesso ribadisce nei social: “Per fortuna che non sono un artista”, e non lo voglio certo contraddire!

Chissà perché questo pudore da (ex?) metalmeccanico. Mi sento di dissentire, in quanto anche io operaio e artista... per me dovrebbe essere motivo di orgoglio fare arte “dal basso”, senza le facilitazioni delle classi più agiate. E pensare che il nostro disaccordo parte da un suo concetto su cui invece concordiamo: “Fare arte è far qualcosa per passare il tempo in attesa della morte”. Lui lo dice con tono caustico e iconoclasta, perché i presunti artisti scendano dal piedistallo. Questa è cosa buona e giusta, ma io ribalto il concetto in direzione edificante. Appunto, siamo mortali? E allora tanto vale utilizzare il tempo per fare qualcosa di bello, non solo di utile per le aziende!

Sconsiglio di ascoltare la succitata “Osservazioni d'un mezzobusto” se siete in automobile, per via di uno scherzo (che non rivelo) che mi ha quasi fatto salire sulla rotatoria! Meglio a casa, su un bello stereo. Questo brano contiene la sua massima più importante: “La mentalità del vincente / è solamente un cancro demente”.

Le distorsioni di chitarra proseguono ad accompagnare il flauto in “Passaggi”, dove la riflessione si fa più amara e pessimista, sempre attuale: “Come passiamo sopra la morte di ciò che non ci tocca, come fosse una mano di carte, senza un punto che sia uno”. Le carte sono ricorrenti nell'immaginario di Carlin: erano già presenti ne “La mano del morto”, uno dei brani più forti di quando suonava nei Campo Magnetico. E poi “La malattia” ci trascina in un 6/8 ipnotico e spaventevole, tra sacrifici e radici intrecciate coi nervi.

“Riunione straordinaria” è il brano scelto per girarci un video coi suoi consueti colori psichedelici. Vien da chiedersi se quel che canta sia autobiografico o se si sia immaginato una situazione tipica di rimprovero di un dipendente poco sveglio (o poco prono): “Sai, noi qui abbiamo degli standard, non è che puoi venire qui e far la parte di quello che non sa, di quello a cui nessuno ha detto niente. Sai, noi qui abbiamo degli obiettivi, non è che puoi venire qui e far la parte di quello che non sa, di quello a cui non frega niente”. Il video è il coerente corrispettivo visivo di questa formula sonora distorta. Così acido e tagliente, il suono della chitarra ricorda certe cose di Zamboni nei CCCP.

Infine, la voce glaciale chiude l'album in “Notte d'inchiostro”, evocando un'infernale situazione à la “Salò” di Pasolini, con miliardari che si divertono a infierire su poveri disgraziati (“Gli dettero un calcio in viso così forte che esplosero stelle tutt'intorno”), e poi si moltiplicano generando figli senza amore, per proseguire con questa carneficina. La distorsione diventa totale, come nei primi brani lo-fi di Bugo, come “Milano tranquillità”.

Non ci sono riferimenti precisi: sono impressioni di corpi senza volto, di cui riconosciamo le funzioni (vittime, carnefici e codardi), la sensazione dell'ingiustizia come struttura che forma e regge la nostra società, descritta con la nausea di Gianni Carlin che tuona nella musica e nelle parole. Un punto di vista senza speranza che si fa necessario per smascherare le storture che, negli ultimi mesi, ormai vengono pure sbandierate senza vergogna dai potenti del mondo. (Gilberto Ongaro)