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22/12/2024
14/12/2024 PEARL JAM
Il capolavoro ''Vitalogy'', momento più alto della loro intera carriera, compie 30 anni
Dopo “Vs”, che segnava un cambiamento non indifferente nel suono dei PJ, arriva “Vitalogy” che riduce la carica punk, ma comunque permette il proseguimento dell’evoluzione.
L’irruenza del secondo disco non svanisce, ma si distribuisce in modo diverso e soprattutto viene espressa attraverso composizioni più lugubri e misurate; si sente che i PJ misurano le loro forze e ne sfruttano appieno le potenzialità, variando maggiormente le strutture e dando un tocco di originalità maggiore.
“Vitalogy” è un album tenebroso, spesso melanconico e triste, capace di commuovere, come di esaltare, di far pensare come di trasmetterci rabbia. “Last Exit”, dal ritmo semplice ed irrefrenabile, è una sorta di monito: “Lascia che il sole salga, Che bruci la mia maschera… Questa è la mia ultima uscita”. Una dichiarazione d’intenti, una voglia di mostrarsi nudi e crudi che verrà poi ritrovata nel corso del disco.
Quando parlavo di continuità nell’evoluzione mi riferivo a brani come “Spin The Black Circe”, una sorta di assalto isterico e sfrenato, sicuramente un passo avanti rispetto ai brani omologhi dei lavori precedenti perché gode di un’originalità di forma mai riscontrata prima nel gruppo. Si prosegue infatti con brani dallo stile nuovo: “Not For You” è un poderoso trip nevrotico, un graduale crescendo alacre; “Tremor Christ” è una danza arida splendida; il gruppo è capace di modellarsi alla perfezione e ricreare senza difficoltà atmosfere incandescenti o evocative.
“Whipping” ripropone il rock classico di “Vs” con una forza ritmica e rabbiosa, direi sincera, molto più accentuata. “Satan’s Bad”, pur non essendo una brutta canzone, forse non è completamente in sintonia con le altre per via del suo refrain forse un po’ forzato e non in sintonia con gli umori del disco. “Corduroy” è una sorta di nuova “Jeremy”, con i fendenti di chitarra che, seguendo il cantato, si addolciscono e ripartono, come ondate improvvise, dando al brano un senso di dinamismo eccezionale. Insieme all’opening è la canzone che forse si distacca di più dal resto, proprio perché ripercorre vie ormai abbandonate, risultando comunque eccellenti nella loro vena reazionaria.
Al fianco di questi straordinari pezzi di rock poderoso troviamo le ballate intimistiche; il gruppo si è migliorato anche su questo fronte e ci regala perle incomparabili come “Nothingman”, “Better Man” e “Immortality”. La prima, forse la più emotivamente fragile, è una ninna nanna piena di rimorso: “Uomo da niente, Avrebbe potuto essere qualcosa, Uomo da niente”. “Better Man” trasforma quel rimorso in speranza, così come la delicatezza iniziale del brano si libra poi in uno slancio liberatorio. “Immortality” è forse l’apice melodico mai raggiunto da Vedder. Una desolata veduta sull’umanità; un commovente viaggio di disperazione, indescrivibile come la pioggia che cadendo monda il nostro capo da ogni peccato.
La terza facciata di “Vitalogy” è quella sperimentale: “Bugs” è un irriverente gioco di armonica e voce. “Aye Davanita”, dai ritmi psicotici, è una danza subliminale, eccellente. I sette minuti di “Hey Foxymophandlemama. That´s Me”, un folle dialogo contornato da suoni stranianti, chiudono il disco, che si propone prepotentemente come vertice assoluto dei PJ. Forse non ha l’ingenua spontaneità dell’esordio, ma è di certo la loro produzione più curata, intima e, banalmente, quella con le canzoni migliori. (Fabio Busi)