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19/11/2024   THE BEATLES
  Arriva il box set ''The Beatles: 1964 U.S. Albums in Mono'', che raccoglie i primi sette LP americani su Capitol

Strano, ma vero: negli anni ’60 la casa discografica americana dei Beatles decise di non pubblicare gli album così com’erano stati pensati, preferendo smembrarli per creare più prodotti. Mica avevano idea, negli uffici della Capitol, che le generazioni future avrebbero idolatrato quei dischi come opere d’arte sacre. Volevano solo spremere più soldi possibile da quei capelloni prima che la bolla scoppiasse. E così hanno messo 12 canzoni per ogni LP, invece di 14, arrivando a pubblicare sette dischi in un anno, col risultato che fan americani hanno ascoltato versioni diverse di quegli album rispetto al resto del mondo. Versioni che sono state poi dimenticate, ma che costituiscono una parte fondamentale della saga dei Beatles: sono gli LP che hanno fatto innamorare perdutamente l’America dei Fab Four.

Ora quei dischi stanno per essere riproposti nel box set ''The Beatles: 1964 U.S. Albums in Mono'', che raccoglie i primi sette LP americani su Capitol, tutti usciti tra gennaio 1964 e marzo 1965, ripubblicati dal 22 novembre su vinile da 180 grammi per audiofili. Dopo essere deflagrata in Europa, la Beatlemania è esplosa negli Stati Uniti il 9 febbraio 1964, il giorno in cui John, Paul, George e Ringo si sono esibiti all’Ed Sullivan Show. L’album che si trovava nei negozi americani in quel momento era ''Meet The Beatles'', un’accozzaglia di singoli, B-side e pezzi tratti da vari LP. La Capitol era convinta di dover fare cassa visto che tutti pensavano che quei ragazzi sarebbero durati un anno, al massimo due e così hanno pubblicato uno dopo l’altro ''Meet The Beatles'', ''The Beatles’ Second Album'', ''A Hard Day’s Night'', ''Something New'', ''The Beatles’ Story'', ''Beatles ’65'' e ''The Early Beatles''.

Le nuove versioni suonano in modo fenomenale in mono esattamente come erano state concepite. Al trasferimento su vinile ha sovrinteso Kevin Reeves presso gli East Iris Studios di Nashville, il cofanetto raccoglie i sette album statunitensi (disponibili anche singolarmente, tranne il 33 giri dal taglio documentaristico ''The Beatles’ Story''). Il box è accompagnato dalle note di copertina di Bruce Spizer, illustre storico dei Beatles, e i nuovi mix rendono finalmente giustizia ai nastri americani. Come racconta Reeves, «volevano non solo pubblicare questi dischi unici, che non uscivano su vinile da tempo, ma volevano provare a fare qualcosa per rinnovarli». Intere generazioni di americani sono cresciute ascoltandoli. I fan si sono appassionati a titoli come ''Yesterday… and Today'' e ''Beatles VI'' che nel Regno Unito non esistevano. Ogni singolo LP precedente a ''Sgt. Pepper'' è stato maciullato (il ''Revolver'' statunitense era monco di tre delle canzoni migliori di John). Sembra incredibile, ma gli album inglesi originali dei Beatles non sono stati pubblicati in America fino al 1987, quando sono arrivate le tanto acclamate versioni su CD. Nel frattempo gli LP statunitensi sono spariti dalla circolazione e sono fuori catalogo dal 1995: la maggior parte dei fan di oggi non li ha mai ascoltati.

Eppure, per molti versi, gli album statunitensi sono stati ancora più influenti di quelli “veri”. Sono i dischi che hanno sentito i Beach Boys. Quelli che ha ascoltato Smokey Robinson. Quelli che Stevie Wonder, Carole King e Marvin Gaye hanno preso come una sfida artistica. Bob Dylan ha scoperto i Beatles ascoltando roba come ''Something New''. Quando Brian Wilson ha sentito ''Rubber Soul'' e ha deciso che l’avrebbe surclassato con ''Pet Sounds'', stava ascoltando il ''Rubber Soul'' sbagliato (ad esempio la copia di Brian iniziava con ''I’ve Just Seen a Face'', non con ''Drive My Car''). I Beatles si rifiutavano di inserire i singoli negli LP, credevano non fosse corretto far pagare due volte ai fan la stessa canzone. E così, per una questione di principio, nel Regno Unito 45 giri come ''I Want to Hold Your Hand'' e ''She Loves You'' sono rimasti fuori dagli LP. La Capitol invece non s’è fatta scrupoli, probabilmente a ragione: i fan americani sarebbero insorti se avessero comprato ''Meet the Beatles'' senza trovarci ''I Want to Hold Your Hand''.

Ecco, prendete ''Meet the Beatles'': parte con ''I Want to Hold Your Hand'' (un singolo), ''I Saw Her Standing There'' (il pezzo d’apertura di ''Please Please Me''), ''This Boy'' (il retro di ''All My Loving'') e ''It Won’t Be Long'' (la prima canzone di ''With the Beatles''). Si potrebbe dire che è un tradimento delle intenzioni artistiche della band, che è un mischione, forse anche una mistificazione, ma è comunque una facciata A da urlo. ''Meet the Beatles'' è il classico che i Beatles non hanno mai concepito. Gli album statunitensi sono stati assemblati da un uomo di nome Dave Dexter, il discografico della Capitol che si occupava delle uscite dei Beatles. È una figura controversa nella storia dei Fab Four, che i fan tendono a maledire. Era un appassionato di jazz che non amava i Beatles e pensava che i loro dischi non fossero granché buoni. Così li ha rimasterizzati. «Non voleva pubblicarli», spiega Reeves, «ma la casa discografica l’ha costretto a farlo e lui ha pensato bene di metterci mano e renderli diversi apportando modifiche a quello che era stato fatto nel Regno Unito». Ha avuto la mano pesante in studio: «Non voglio essere troppo critico, ma ha fatto delle scelte bizzarre».

Ecco perché per la nuova edizione degli album statunitensi è stato necessario affrontare alcuni problemi di suono. «Dexter ha modificato radicalmente alcune cose», dice Reeves. «In primis, ha preso le bobine stereo e le ha rese mono. Ha compresso tutto. Sicuramente ha usato le bellissime camere d’eco della Capitol per migliorare un po’ il suono». Detto così è un eufemismo, perché i mix di Dexter sono ben noti per l’eco aggiunto, soprattutto in ''Beatles ’65'': quando George canta ''Everybody’s Trying to Be My Baby'', sguazza nel riverbero. «Sembra sia dentro al Lincoln Tunnel», scherza Reeves. Com’è stato possibile che una sola persona sia intervenuta su album come quelli, che erano piuttosto importanti? «Non ti sembra una tipica mossa da boss del New Jersey?», chiede Reeves. «Quel tizio doveva avere un po’ di Jersey dentro di sé. Era un genio o un furfante? Non lo so, di solito viene percepito nel secondo modo, perché ha preso quei nastri meravigliosi di Abbey Road, dal suono purissimo, e li ha trasformati in qualcosa di completamente diverso».

Le stampe statunitensi erano anche famigerate per il pessimo effetto finto stereo. «L’abbiamo sempre chiamato pseudo stereo», dice Reeves. «È facile trasformare una registrazione mono in una pseudo stereo: basta equalizzarla in due modi molto diversi e sembra che quello che esce da ciascun canale sia differente. Ma non è il massimo». Molti fan hanno accusato Dexter di essere uno snob del jazz che odiava il rock’n’roll e ha sabotato quegli album per dispetto. «Non posso parlarne in modo attendibile, ma ci sono degli indizi che potrebbero suggerire che è vero», dice Reeves. «Non lesinava nell’inviare i suoi famosi promemoria in cui diceva che questa roba non avrebbe venduto e sarebbe piaciuta solo ai ragazzi che ascoltavano musica su giradischi da cinque dollari, o che i dischi sembravano stampati sul retro delle scatole di cereali. Era molto diretto».

La sfida di ''The Beatles: 1964 U.S. Albums in Mono'' era prendere i nastri americani e farli finalmente suonare come i Beatles. «Ci siamo domandati quali bobine usare», spiega Reeves. «Quelle di Dexter o quelle di Abbey Road? Abbiamo preso i nastri, non delle copie, né delle versioni in pseudo stereo. Ed è da lì che abbiamo ottenuto i vinili». Gli album americani hanno una loro personalità distinta. ''Second Album'' ha un seguito di culto, coi Beatles che rendono omaggio ai loro eroi afroamericani facendo cover di Little Richard, di Chuck Berry e della Motown. ''A Hard Day’s Night'' era una mezza fregatura, pieno com’era di versioni orchestrali di George Martin di canzoni dei Beatles. ''The Early Beatles'' in pratica è l’LP d’esordio inglese ''Please Please Me'', che la Capitol non aveva pubblicato. ''Something New'' e ''Beatles ’65'' (usciti a metà dicembre del 1964) presentano il lato più ombroso di John e Paul, con pezzi da ''A Hard Day’s Night'' e ''Beatles for Sale''.

''The Beatles Story'' è documento bizzarro, con voci fuori campo che raccontano la storia della band insieme a interviste, conferenze stampa, dialoghi e frammenti di brani. È un doppio album di meno di 50 minuti eppure è entrato in Top 10: niente male per un disco in cui non c’è neppure una canzone completa. È un tributo alla totale spudoratezza della Capitol, quella che ha portato a chiudere l’altrimenti impeccabile ''Something New'' con una versione in tedesco della prima hit statunitense della band: ''Komm Gib Mir Deine Hand''. ''The Beatles: 1964 U.S. Albums in Mono'' rappresenta la redenzione per questi LP a lungo trascurati: finalmente suonano magnificamente bene, anche se a loro modo. Sarebbe stato più facile utilizzare i mix di Abbey Road per ricreare le versioni americane ma, come spiega Reeves, «volevamo pubblicare dischi unici, che non uscivano su vinile da tempo, e volevamo provare a fare qualcosa per rinnovarli. Ho lasciato “respirare” i nastri affinché prendessero vita ed esprimessero la loro natura: spero che i fan lo apprezzeranno». (RollingStone.it)