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20/11/2024
02/01/2024 LA TOP 20 DEL 2023!
I migliori album dell'anno appena trascorso, secondo il nostro ''super redattore'' Manuel Maverna!
Carissimi, bentrovati.
Avrei voluto esordire esprimendo qualche considerazione personale su un recente, tragico fatto di cronaca nera che mi ha particolarmente scosso, ma ho concluso che non sono uno psicologo né un sociologo né tantomeno un maître à penser, solo uno che ha una figlia femmina, uno che di certe cose ha paura. Pertanto, glisso con rispetto.
Music Map si occupa di musica: conserviamo la tristezza come in “Inside Out”, ma stiamo nel seminato, almeno.
Anzi, andiamo a braccio che è meglio.
Ecco, avrei voluto scrivere pagine e pagine in memoria di Karl Tremblay, cantante dei Cowboys Fringants - band folk canadese che amo quanto Alex Del Piero, Marilyn Manson e Janet Mason – volato via a 47 anni, mercoledì 15 novembre, dopo lunga lotta contro il solito dannato male, portandosi via la storia di una band destinata quasi certamente a sciogliersi e lasciando in eredità una serie di canzoni troppo belle per dimenticarle, ma al solo pensiero mi scendeva una lacrima, e allora amen.
Poi capita che giovedì 30 novembre lasci il porto anche Shane Mc Gowan e capita quindi che il Direttore pubblichi sulla newsletter della settimana immediatamente successiva alla dipartita del buon Shane una mia vecchia recensione di un vecchio album dei Pogues, a scopo celebrativo. Sì, celebrativo, come no. Caso vuole che quella sia una delle dieci/dodici recensioni non propriamente buone che potrete trovare nella storia di Music Map, non perché siamo servi del potere, schiavi degli uffici stampa e/o delle etichette discografiche, ma perché siamo personcine eleganti e rispettose. “Andrea” – gli scrivo, mentre me la rido – “ma proprio questa dovevi pubblicare? È una mezza stroncatura, adesso ci mangiano vivi!”. “Ma no” – mi risponde – “non era così negativa, dai. E poi era ampiamente condivisibile. Comunque nessuno ha protestato”. A posto. Anyway, io invito i fan dei Pogues a non leggerla e mi scuso a prescindere.
Adesso parliamo del Disco dell’Anno, che è un po’ come l’oramai celeberrimo gatto di Schrödinger, nel senso che si trova contemporaneamente in due stati, uno dei quali esclude l’altro (invito i fisici a perdonarmi l’estrema semplificazione e mi scuso a prescindere). Oh, dico: io ne ho discusso col Direttore, perché insomma, la cosa è anomala. E poi mi sono anche letto su un noto social tutta una lunga digressione di Stefano Isidoro Bianchi che – mutatis mutandis – sviscerava la questione non senza spunti di interesse.
Praticamente: il Disco dell’Anno 2023 è uscito a dicembre del 2022, e i dischi usciti a dicembre non figurano quasi mai (diciamo: MAI) nelle classifiche di fine anno, per ovvi motivi pratici di tempistiche. Sta di fatto che a noi il disco è arrivato a gennaio 2023, ed il 22 gennaio è stato recensito e pubblicato come Disco Music Map della settimana. Quindi, in pratica, il Disco dell’Anno 2023 è sia del 2022 (per data di pubblicazione) che del 2023 (per data di arrivo a noi): oppure, se preferite, il Disco dell’Anno 2023 non poteva essere né Disco dell’Anno 2022 né potrebbe essere Disco dell’Anno 2023. “Quindi cosa faccio con ‘sto benedetto disco?”, chiedo al Direttore. Mi risponde con la consueta saggezza, sostenendo sia che la cosa non sia affatto grave, sia che lascia a me la scelta. Ecco, come gli psicologi: alla fine loro ti ascoltano e tu decidi.
Ho pensato quindi che sarebbe stato inopportuno eleggerlo a Disco dell’Anno, ma anche che sia un disco di una bellezza talmente immensa da meritare lo scettro per il decennio a venire. Quindi, volevo infischiarmene e sbattere in prima pagina come Disco dell’Anno 2023 un disco del 2022, però poi ho riflettuto: mettiti nei panni della band, che magari vorrebbe condividere sulle sue pagine social la classifica di ‘sta webzine italiana, che li decreta album dell’anno anche se è uscito nel 2022. Immagino un po’ di imbarazzo, del tipo: “Ma glielo diciamo o no, che è uscito nel 2022?”. Come avrebbe detto la zia Luisa buonanima di fronte a qualsiasi evento – ivi comprese disgrazie varie, fratture scomposte, incidenti & altro: “Ma quanto ridere!”.
Ero già pronto alla sostituzione, quando mi sono imbattuto su un social network nella Top 50 di fine anno di Pitchfork. Dico: Pitchfork. Volenti o nolenti, sostenitori o detrattori: IL sito di recensioni per eccellenza. E indovinate un po’ cosa scopro? Che Pitchfork – dico: Pitchfork – ha messo al numero 1 del 2023 l’album di SZA. Che è uscito a dicembre 2022. Ho letto varie lamentele a riguardo da parte del folto pubblico della rete, ma in fondo non è affar mio. Se l’ha fatto Pitchfork – dico: Pitchfork – perché mai essere da meno?
Colorita esclamazione di esultanza al cospetto di moglie e figlia – attonite - e decisione presa all’istante.
Ecco, finita la parentesi leggera, ora torno triste, perché domenica 12 novembre, qui a Milano è successo qualcosa di preoccupante. Una piccola cosa, ma brutta. Una cosa che fa riflettere.
È successo che quello di domenica 12 novembre, nella sua classica cornice di piazza Cordusio (zona di lusso, a due passi dal Duomo), pomeriggio digradante in una serata amara, è stato l’ultimo live in quella sede di Valerio Ziglioli, in arte Tao, eccelso artista di strada – ma non solo – statuario nella sua incrollabile coerenza. Quella stessa coerenza che da vent’anni lo porta in giro a bordo del suo pulmino colorato con la scritta “Tao Love Bus”, dall’interno del quale ammannisce solenne il suo r’n’r for the masses insieme a due sodali stipati nell’angusto spazio del minivan. Ecco: è successo che il Signor Sindaco – o chi per esso – ha stabilito che lì il Love Bus non dovrà più stazionare, né Tao&soci esibirsi in Cordusio, perché insomma, in poche parole, è fuori contesto, e/o arreca fastidio di qualche tipo.
Pessima notizia e allarmante sign o’ the times, al netto di tutto il resto. E il resto è brutta musica fatta solamente con la batteria.
Statemi benone, alla prossima.
Manuel
1. BLACK OX ORKESTAR - "Everything returns"
A volte ritornano, come spettri ululanti nella penombra. Che non è tenebra, ma peggio: è grigiore, una giornata infinita di pioggia infinita, uno sferragliare sinistro che condurrà dove la speranza muore. A cavallo tra epoche differenti, ogni sopruso è uguale, ogni barbarie è la medesima. Il canto in yiddish come sofferenza, o come sola redenzione dell'anima, mentre tutto muore, là dove non vi è più nulla.
(brano migliore: ''Mizrakh Mi Ma’arav')
(recensione su Music Map: ''qui'')
2. MATT ELLIOTT - "The end of days"
Capolavoro minore in minore di un artista - in fondo, e purtroppo - minore, dolente litania che sa di tempi andati, di cose perdute, di persone che non ci sono più. Il crooning profondo e intimo è sempre lo stesso, il fare dimesso e confidenziale pure, il senso di dilagante, insopprimibile, inarginabile tristezza che trasuda da queste sei tracce così meravigliosamente agonizzanti è una delizia irrinunciabile.
(brano migliore: ''January's song'')
(recensione su Music Map: ''qui'')
3. ELLEN RIVER - "Life"
Elena Ortalli nasce tra la via Emilia e il west, esordisce con band nel 2013, come solista nel 2018. Si ripresenta cinque anni più tardi con un album doppio. Autoprodotto. Ventisette canzoni. Ottantacinque minuti. Che coraggio, signorina. Lo intitola "Life", dentro ci mette tutta la sua vita, e un po' della vita di chiunque. Americana made in Italy. Diretto, urgente, perfetto. A marzo aprirà per Lucinda Williams. Non serve altro.
(brano migliore: ''Better than me'')
(recensione su Music Map: ''qui'')
4. BÄRLIN – "State of fear"
Tre tizi francesi dalla strumentazione insolita e dal piglio scopertamente off, si muovono impavidi su un filo sottilissimo tra i Morphine e Tom Waits, pennellando arie nevrotiche senza un centro di gravità neppure apparente. Trasmettono una palpabile inquietudine, veicolata da una scoperta vocazione alla teatralità. Attraggono e respingono, in un gioco di specchi non privo di fascino. Espressionismo in purezza.
(brano migliore: ''Revenge'')
(recensione su Music Map: ''qui'')
5. MARRANO - "Carne ossa"
"Era meglio quando c'erano i Marrano", qualcuno scriverà tra vent'anni. Perché i Marrano fanno un gran bene, anche se è un bene malaticcio e inacidito. Cattiveria for the masses, dispensata al mglior offerente. Il mondo è un brutto posto in cui vivere, ma altro non c'è, quindi cerchiamo almeno di disintegrarlo come merita. E' tutto orribile, tutto sbagliato, tutto storto: ok, siamo d'accordo?
(brano migliore: ''Tutto (è niente)'')
(recensione su Music Map: ''qui'')
6. CATT - "Change"
Alta bella bionda occhi celesti: ventotto anni, tedesca, molto da dire e uno stile così raffinato e desueto con cui dirlo. Questa è la signorina Catharina Schorling, che disegna in punta di pennello una sorprendente serie di acquerelli, così belli nella loro semplicità da lasciare a bocca aperta. Canzoni pulite e lineari a tinte tenui, una gioia in cui smarrirsi, lasciandosi un po' andare, senza fretta.
(brano migliore: ''Honesty lies'')
(recensione su Music Map: ''qui'')
7. CRM - "My lunch"
Ispidi e brucianti, cupi ed incombenti, sempre spavadamente ed esplicitamente orientati ad infastidire. Una passeggiata con i CRM non è mai piacevole, altro che uscire a prendere una boccata di aria fresca chiacchierando del tempo e del campionato: tocca invece respirare vapori venefici, porsi delle domande, sentirsi antagonisti, schierarsi. Sempre e comunque contro. Far funzionare la testa, altro che relax.
(brano migliore: ''Weirdo'')
(recensione su Music Map: ''qui'')
8. CALEB NICHOLS - "Let's look back"
Immagino gli spiriti di Tom Petty, Elvis Costello e Roy Orbison mentre ascoltano Caleb Nichols, pensando che in fondo sì, il ragazzo ha studiato e la lezione l'ha ben rimasticata. Alt-folk fatto con garbo, grazia e buon gusto, tutto a misura, niente fuori posto. Facile a dirsi, ma ogni pezzo è un killer che colpisce come deve, con semplicità: conciso, dritto al punto, essenziale. Un lavoro pulito, roba da professionisti.
(brano migliore: ''The absolute boy'')
(recensione su Music Map: ''qui'')
9. MESUDI' - "Nodi"
Un disco di rara bellezza ed altrettanta profondità sposa tradizione e contemporaneità fondendo il tutto in un linguaggio di frontiera così antico, così moderno. Il connubio è suadente ed avvolgente, la soave musicalità delle voci femminili regala all'insieme un'aura misticheggiante e lontana, legata a filo doppio con il battito incalzante della ritmica. A suo modo, un piccolo prodigio da studiare ed assimilare con cura.
(brano migliore: ''Voca sia'')
(recensione su Music Map: ''qui'')
10. OTTODIX - "Arca"
Nessuno come Ottodix è riuscito in così tanti anni ed in così tanti preziosi album a condensare scienza, ragione, storia e pensiero critico sposandoli ad una espressione musicale alta e dotta. Il suo è un percorso avulso da qualsiasi traccia lasciata da altri, nel cui solco mai si muoverà. Arte complessa e composita, di cui la musica è solo una parte. Il disegno è molto più grande, richiede impegno e dedizione.
(brano migliore: ''Memorandom'')
(recensione su Music Map: ''qui'')
11. LOLITA TERRORIST SOUNDS - "St. Lola"
Post-punk, avanguardia, Berlino, Kristof Hahn degli Swans e ok, a posto così. Le coordinate dovrebbero essere sufficientemente chiare, la via verso il calvario è segnata, il martirio sonoro abbia pure inizio. Buio in sala, buio fuori, una lunga notte nera come pece squarciata da improvvisi lampi accecanti. Musica sporca che ti stringe la gola: sai che è male, ma non fai niente per liberarti. Strana sensazione.
(brano migliore: ''Shaved girl'')
(recensione su Music Map: ''qui'')
12. BLIND RIDE - "Paranoid-critical method"
Tre ragazzi - affatto immaginari - che vengono da Campobasso, ma sembrano gente di Chicago, imbastiscono un fragoroso, tempestoso, durissimo impasto a base di elettricità malevola e martellante frenesia ritmica. Punk, hardcore, post-rock e avanti così verso l'impatto contro un muro di suono eretto a totem. Potenti, quadrati, solidissimi, inaspettati.
(brano migliore: ''Surrogate of a dream'')
(recensione su Music Map: ''qui'')
13. KAMBODSJA - "Resilient"
Quattro norvegesi cattivi come demoni triturano lo scheletro del punk. Lo fanno da vent'anni, non so in quanti se ne siano accorti. Ci mettono una furia che addirittura spaventa, a tratti. Focosi, rabbiosi, nervosi. Scattano come dei cobra, improvvisi, repentini, mortiferi. Suono soffocante e psicotico, capace di disturbare fin quasi al limitar del fastidio fisico. Resteranno forse confinati lassù, ed è un peccato.
(brano migliore: ''Basement prophet'')
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14. ROBERTO BENATTI - "Aspettando Ribot"
Il cantautore che non ti aspetti, o il non-cantautore che avresti voluto. Perché Benatti ha tutto del cantautore, ma anche no. Racconta il suo piccolo mondo moderno con linguaggio dettagliato e sottofondo minimalista, non regalando una nota più del dovuto, eppure dipingendo bozzetti così sorprendentemente vividi da costringerti a chiudere gli occhi per rivederli al rallentatore. Questa è classe, cari miei.
(brano migliore: ''Tu dove sei'')
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15. RITUAL HOWLS - "Virtue falters"
Post-punk vieux temps, delizia per nostalgici che mai stanca, rigonfia di memorie e suoni un po' demodè. A rispolverare le Dr. Martens provvede un trio di Detroit che si tuffa lieto nella favola bella che ieri in molti ci illuse e che oggi amiamo sentir raccontare come la più affascinante delle bedtime stories. Mettono in fila tutto - ma proprio tutto - dalla A alla Z, così bene che la favola sembra vera.
(brano migliore: ''Cauterize my eyes'')
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16. MONDO BOBO - "Con gentilezza"
Mr. Paolo Benedetti & friends iniettano massicce dosi di focosa cattiveria virata noir in un compendio di piccato risentimento, sia colto che viscerale, connubio di muscoli e cervello in salsa Nineties. Ne esce un lavoro complesso, tesissimo, denso e ricco, tra noise d'oltreoceano e post-wave nostrana. Trasuda negatività e carica con violenza, trovando in ciò ideale compimento.
(brano migliore: ''Sempre uno più di te'')
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17. NICHOLAS MERZ - "American classic"
Songwriter insolito, quasi un drop-out da chissà dove: suona al contempo antico e moderno, lieve e impegnato. Interpreta canzoni che sembrano naif, ma che in fondo nascondono sempre qualcosa, celato dietro le mentite sembianze di verse-chorus-verse da tre minuti. Che poi verse-chorus-verse neanche tanto, e non sempre. Misterioso, irrequieto, sibillino. Molto U.S.A., ma neanche tanto, e non sempre.
(brano migliore: ''The Dixon deal'')
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18. PEPPE VOLTARELLI - "La grande corsa verso Lupionòpolis"
In fondo, è facile perdersi tra le spire di quel timbro arrochito, che può far di ogni canzone ciò che vuole. Basta un guizzo, un'intuizione, un gancio, un ritornello e voilà: tira un'aria d'antan che descrivervi non saprei, un trionfo di musica popolare declinata nei modi più disparati, ma sempre a fuoco. Godibile, facile, golosa. Appetitosa come le pietanze di una volta, quei sapori perduti che non si usan più.
(brano migliore: ''Au cinema'')
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19. SWEENEY - "Corporeal"
Quella di Jason Sweeney è arte rarefatta e sfuggente che sfiora le atmosfere impalpabili di David Sylvian, un trionfo di trame sospese ed estatiche. Dilatazioni visionarie fondate sull'esplorazione di ogni possibilità offerta dalla vasta area grigia del paranormale. Inghiotte in un cono d'ombra che attrae con la sua infida malìa, mentre scivoli verso l'ignoto, con un brivido sì, ma non senza un sottile piacere.
(brano migliore: ''The dead speak back'')
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20. JOE BATTA & I JEKO - "Come noi nessuno mai"
Una rimpatriata tra vecchi amici, innumerevoli birre scolate, poi uno che imbraccia la chitarra e tutti quanti che gli vanno dietro, ognuno col suo viaggio, ognuno diverso. C'è chi grida, chi stona, chi ride, e va benissimo così. Come se il tempo si fosse fermato o come se fosse tornato addirittura indietro ai giorni belli, quelli in cui bastava poco per sentirsi unici ed invincibili. Ecco, Joe Batta ha capito tutto.
(brano migliore: ''Carillon'')
(recensione su Music Map: ''qui'')