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20/11/2024
25/04/2023 HARRY BELAFONTE
Il celebre cantante, attore ed attivista giamaicano-statunitense è morto all'età di 96 anni
«Quando sono nato ero “colorato”, poi sono diventato “negro”, poi “nero”. Di recente sono stato promosso al rango di “afroamericano”. Direi che è stata una bella evoluzione, ma ero e resto tuttora in cerca di libertà». La vita lunghissima e straordinaria di Harry Belafonte è finita dopo 96 anni, nella sua New York – nacque da genitori giamaicani in quello che era allora un ghetto, Harlem, è morto nell’Upper West Side – dopo quasi un secolo di successo mondiale senza fare sconti, mai, neanche una volta, all’America dei bianchi.
Arrivò alla gloria nei primi anni Cinquanta battendo anche Elvis – il primo artista a vendere un milione di copie fu Belafonte con «Calypso», non Presley – portando in cima alle classifiche la world music con i Caraibi, e l’Africa, nel cuore, decenni prima che qualcun altro ne inventasse il nome.
Ecco allora «Day-O (The Banana Boat Song)», «Jamaica Farewell», un singolo dopo l’altro per far ballare il mondo. La voce baritonale inconfondibile e inimitabile, il blues, il folk, Broadway ma anche Gershwin e se avesse avuto tempo e voglia di studiare l’opera avrebbe dominato Verdi e Mozart.
Hollywood lo rincorse mettendolo sotto contratto: cantava, recitava, bello come pochissimi. Uomini diversi da Belafonte si sarebbero accontentati. Del successo, dei milioni, dell’adorazione del pubblico. Hollywood lo scrittura per ''Carmen Jones'', ''L’isola nel sole'', ''La fine del mondo'', ''Strategia di una rapina'', lui apre una sua casa di produzione con l’idea di mettere in cantiere i film che gli interessano.
Non vuole finire marchiato come un altro pioniere afroamericano, Sammy Davis jr, «song and dance man» (intrattenitore canterino e ballerino). Belafonte, che nel frattempo diventa sempre più vicino a un giovane predicatore e attivista per i diritti civili del Sud, un certo Martin Luther King, fa una delle molte cose rivoluzionarie della sua vita: dice ''no grazie''. No ai film che non gli interessano, no alle parti da “professore nero”, “avvocato nero”, “poliziotto nero” (che finiscono a un altro protagonista della lotta dei neri per l’uguaglianza, il suo vecchio collega dell’American Negro Theatre di Harlem negli anni Quaranta, Sidney Poitier, che con Belafonte ebbe un rapporto di grande ammirazione ma non sempre semplicissimo).
Al culmine del successo Belafonte si chiama fuori da Hollywood, torna alla musica ma soprattutto si tuffa nell’attivismo, nelle marce contro la segregazione, andando in Alabama a chiamare «Bombingham» la cittadina di Birmingham nella quale gli attentati dinamitardi del Ku Klux Klan erano una consuetudine.
Artisti e attori neri, in quegli anni Sessanta complicati, optavano per la linea tracciata da Poitier: agire dall’interno del sistema per piantare il seme del progresso. Non abbastanza per Belafonte (dopo l’assassinio del suo amico fraterno Martin Luther King voleva far seguire al funerale una marcia antirazzista, Poitier disse no per evitare disordini, i due amici non si parlarono per qualche anno).
Belafonte, al contrario dei colleghi, va nei campus dove ribolle la protesta pre e post ’68, usando nei suoi discorsi metafore inusuali nella loro brutalità – «il razzismo defeca sull’umanità» – che oggi appaiono forti ma allora facevano scandalo. Lo marchiarono non come «song and dance man» ma direttamente come sovversivo: l’Fbi lo sorvegliò attentamente dal 1954 al 1981. Torna al cinema nel 1972 diretto dall’amico Poitier con il quale ha fatto pace, ma è una piccola parentesi prima delle grandi comparsate della vecchiaia, per Robert Altman (''I protagonisti'', 1994) e Spike Lee (''BlacKkKlansman'', 2018). In questo millennio attacca con la virulenza che gli costò la carriera George W. Bush e la guerra in Iraq, sempre con il cuore a sinistra scrive libri tra i quali spicca un’autobiografia di enorme interesse (''My Song''). In extremis, nel 2018, anno secondo dell’era Trump, la biblioteca del Congresso lo onora includendo ''Calypso'' tra le grandi opere americane conservate nel suo archivio. E lui festeggia l’ingresso nel pantheon andando in tv a dire che «l’America è corrosa dal razzismo, ha un dna fallato. La lotta contro il razzismo sarà permanente… Ero al fianco di Martin, e di Bobby Kennedy. Faccio parte del loro lascito, finche vivrò». (Corriere.it)