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20/07/2021   BOB DYLAN
  ''Shadow Kingdom: The Early Songs of Bob Dylan'' - recensione e commento di Samuele Conficoni

In un locale dove ragazze e ragazzi ballano e fumano, vestiti in eleganti abiti Anni Cinquanta, la cinepresa indugia sul palchetto dove una band inizia a suonare: così prende le mosse “Shadow Kingdom”, sottotitolato “The Early Songs of Bob Dylan”, che più che il live streaming di un concerto è un vero e proprio film, l’ennesimo pezzo del puzzle della straordinaria carriera di Dylan, l’eroe multiforme dei nostri tempi, l’Ulisse che ricerca, instancabile, la sua Itaca, ma che nel frattempo prolunga il più possibile il viaggio. Di un vero e proprio film si tratta: riprese ricercate, musica forse pre-registrata, musicisti con la mascherina ma pubblico senza, impegnato a ballare e fumare, elegantemente vestito, tra giacche e cappelli. Accanto al Premio Nobel c’è una band che non aveva mai suonato con lui, formata, tra gli altri, da Buck Meek, chitarrista dei Big Thief, Janie Cowan, che accarezza un meraviglioso contrabbasso, Alex Somers, Joshua Crumbly e Alex Burke. Un gruppo “d’occasione”, a quanto pare, nominata The Third Master Band. Misteriose anche le comparse, giovani, molti dei quali afroamericani, in alcune parti del concerto seduti, in altre, invece, in piedi a ballare e cantare. Ragazzi scatenati, sigarette a volontà in luoghi chiusi, cappelli da ‘50s, e a un tratto pure un manichino seduto tra il pubblico.

In questa coltre di fumo, in una venue giunta da tempi lontani, il Maestro dell’Imprevedibilità sfodera una serie di performance davvero clamorose. Si tratta di un film a tutti gli effetti, come si diceva, perché ogni brano è montato in maniera raffinata e autoriale. La band, infatti, suona in diversi stage, e alcuni brani, distanti tra loro in scaletta, sono registrati nel medesimo luogo, questo a dimostrazione che il film è stato organizzato non riproducendo l’esatta cronologia delle performance ma seguendo un altro criterio. Lo stage è a volte un palchetto rialzato della venue, altre volte un palco teatrale avvolto nel buio, altre volte ancora un salone, anch’esso scarsamente illuminato, la cui luce fa brillare la gestualità di Dylan, un Dylan dai contorni brechtiani.

È una performance che, come tutte quelle del cantautore, risiede in un crocevia di elementi tutti indispensabili, che rendono unico l’opus dylaniano. La voce, sempre più brillante, dalla potenza omerica, racconta storie che sembrano provenire da un irraggiungibile eterno. Le parole, dove riecheggiano i greci e i latini, Petrarca, Machiavelli, Shakespeare, Rimbaud, Eliot, Kerouac moltissimi altri autori, fanno vibrare. La musica, folk e blues, country e ballate, è dominata da chitarre acustiche dai ritmi avvolgenti che intessono scambi originalissimi e caldi, da una fisarmonica presentissima e da un contrabbasso levigato e ammaliante. E Dylan è in ottima forma.

La scaletta, tredici brani per cinquanta minuti di musica, è una rivelazione. Ogni singolo pezzo ha una veste completamente inedita: siamo di fronte all’ennesima rielaborazione dylaniana, che da sempre ama rivivere, e dare più vite alle, proprie canzoni. Si parte con “When I Paint My Masterpiece”, un grande tributo all’Italia (“Oh, the streets of Rome”, così inizia) e all’arte (Dylan è anche un ottimo pittore), con il testo, ancora una volta, in parte riscritto. Dylan è alla chitarra e aggredisce le parole con un fuoco vivo e ardente. Alla chitarra suonerà anche la travolgente “I’ll Be Your Baby Tonight” e una straripante e dal testo per buona parte riscritto “To Be Alone with You”, che mancava dal vivo dal 2005. Dylan esegue alla chitarra, in un salone vuoto, con la band molto distante, visibile solo sullo sfondo, anche una toccante “Forever Young”, anch’essa in una veste nuovissima. Qui Dylan, però, suona giusto qualche accordo qua e là: per tutto il brano carica il testo coi gesti. Dylan è alla chitarra anche nell’energico blues “Watching the River Flow”, penultimo brano, che corre come un fiume in piena.

Le sorprese, però, non finiscono qui. Dylan estrae dal cilindro anche altre sorprese. Da Blonde on Blonde (1966) esegue “Most Likely You’ll Go Your Way (And I’ll Go Mine)” in una versione cupa e impetuosa, e “Pledging My Time”, un blues anfetaminico e torbido, che non veniva eseguito in concerto dal 1999. Un’altra grande sorpresa è stata “What Was It You Wanted?”, pezzo tratto da Oh Mercy (1989), che non veniva eseguita dal vivo dal 1995. Musicalmente e liricamente potente, è un brano drammatico e minaccioso, che presenta un assolo di armonica da brividi. Bob è seduto, colpito da un raggio di luce. Le atmosfere pulp del pezzo vanno a nozze con la venue. E col titolo del progetto che, come ho già avuto modo di scrivere, proviene da un racconto fantasy di Robert E. Howard pubblicato su una pulp fiction nel 1929. Anche “Wicked Messenger”, che mancava dal vivo dal 2009, è un altro brano particolarmente difficile, dai raffinati e ambigui richiami biblici, che sembra ipnotizzare tutti gli spettatori-attori.

Un altro trionfale ritorno in setlist è stato quello di “Tombstone Blues”, che mancava in concerto dal 2006. Dylan ne esegue una versione particolarmente spoglia e appassionata. Dylan non è al centro sul palco ma è l’ultimo uomo a sinistra. Tutta la band è al suo fianco e lo segue in questa declamazione. Dallo stesso album, Highway 61 Revisited (1965), sono tratte anche “Queen Jane Approximately”, che la fisarmonica e l’armonica di Dylan rendono semplicemente magnifica, e “Just Like Tom Thumb’s Blues”, altrettanto poetica e trascinante. La conclusione del film, girato dalla registra israeliano-americana Alma Har’el, è affidata a una versione calda e coinvolgente di “It’s All Over Now, Baby Blue”, che chiude il sipario sulla venue dall’atmosfera lynchiana che ha ospitato lo show. (Samuele Conficoni)