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news - rassegna stampa

24/05/2021   BOB DYLAN
  Happy 80th Birthday, Bob Dylan!

24/05/2021. Bob Dylan compie oggi 80 anni. Il più grande poeta dell’America contemporanea, la voce stessa di quell’America, ha raggiunto gli 80. Premio Nobel per la Letteratura, Premio Pulitzer, Medal of Freedom nel 2012, Oscar e Golden Globe, Grammy, MusiCares Awards, Polar Music Prize, dottorati e lauree ad honorem. Questi sono solo alcuni dei momenti più indimenticabili del percorso di Bob Dylan. Un viaggio che lui inizia, ancora ragazzino, in Minnesota, tra Hibbing e Minneapolis, e che prosegue poi a New York, nel Greenwich Village, nel 1961, anno in cui si trasferisce nella metropoli statunitense, città in cui diventa Bob Dylan. Rivoluziona in pochi anni il panorama musicale e letterario fino a diventare ben presto modello per alcuni dei suoi stessi modelli, in primis Allen Ginsberg. Riesce sin da subito a concentrare nella sua produzione le fonti di ispirazione più disparate, da Kerouac a Melville, da Woody Guthrie a Leadbelly, da Rimbaud a TS Eliot, dai greci e latini (Virgilio, Ovidio e Omero, solo per citarne alcuni) alla Bibbia, da Dante e Petrarca a qualche oscuro poeta della guerra civile americana (Henry Timrod). Lui che, ce lo dice nella sua eccezionale autobiografia Chronicles Volume 1, passava tante delle sue giornate di ragazzo a setacciare archivi storici proprio per studiare la guerra civile della sua nazione. Lui che cantò alla Marcia di Washington. Lui che incontrò il Papa a Bologna. Lui le cui assenze e i cui silenzi comunicano con altrettanta potenza.

Sin dagli esordi Dylan ha rappresentato con estrema evidenza un “prima” e un “dopo”, anzi forse soltanto un dopo. Esiste un mondo artistico prima di Bob Dylan e uno dopo di lui, che però è soltanto lui. Ha attraversato come una meteora il mondo delirante e perverso che dai ‘60s ci accompagna. Ma è una meteora strana visto che ancora brilla e s’infiamma e continua a regalarci capolavori, in ultimo Rough and Rowdy Ways, pubblicato nel giugno 2020. Per non parlare della sua attività concertistica, che solo il Covid ha fermato. Dal 1988 al 2019 aveva tenuto una media di quasi cento concerti all’anno percorrendo tutto il mondo proprio come gli hobo di cui ha cantato. Ha dato una speranza, ha regalato un universo a tutte le generazioni che si sono avvicendate dagli Anni Quaranta a oggi, risultando, in ogni singolo momento, coerente, brillante, misterioso e introverso.

Bob Dylan è riuscito a costruire un corpus senza eguali nell’universo letterario contemporaneo: dai capolavori modernisti a quelli postmoderni e poi ancora lisergici, che da folksinger militante lo resero il re dell’elettricità nel giro di tre anni, da rocker visionario a profeta recluso sperimentatore di nuovi linguaggi che guardano prima alla Bibbia e poi alle nursery rhymes, da poeta sui generis dell’amore finito a metà dei Settanta a predicatore che canta della fine imminente del mondo (che più di quindici anni prima aveva profetizzato in “A Hard Rain’s Gonna Fall” e che avrebbe continuato a cantare in futuro: si pensi a “Things Have Changed”) alla fine dei ‘70s e agli inizi degli ‘80s. E poi c’è il Dylan degli Anni Ottanta, sempre più iniziatico, un fine biblista che tesse una fitta rete inter (e intra) testuale labirintica e sottile. E poi il Dylan che dagli Anni Ottanta entra nei Novanta squarciandoli e riedificandoli. Prima un ritorno alle origini, con due dischi contenenti canzoni folk senza tempo, canzoni che in un’intervista avrebbe definito “il suo libro di preghiere”. Poi l’ennesima rivoluzione, quella che Alessandro Carrera, uno dei suoi studiosi più brillanti, ha definito “il terzo stile”, da fine Anni Novanta a ieri. Ma Dylan è così grande che, con il capolavoro dato alle stampe lo scorso anno, ha già inaugurato un “quarto stile”, come possono solo i più grandi di sempre, e lui è uno di questi. È anche pittore e scultore: mostre delle sue opere sono state ospitate nelle più importanti gallerie e nei più celebri musei del mondo. Ha condotto una trasmissione radio da lui stesso ideata e ha creato una linea di whisky etichettata “Heaven’s Door”. È davvero polùtropon come il protagonista dell’Odissea, poema a lui così caro.

Per Dylan non esistono passato, presente e futuro, per citare nuovamente il Professor Carrera. Tutto è immerso in un unico magma infinitamente potente dove convivono epoche, personaggi e stili lontanissimi, da Mosè a Giovenale, da Dante al Titanic, da Shakespeare a Kennedy, attorno alla morte del quale ha costruito uno dei brani più rivoluzionari della sua carriera, “Murder Most Foul”, uscito cinquantacinque anni dopo quel brano che aveva rovesciato il tavolo su cui tutti giocavano (o, meglio, pensavano di giocare), “Like a Rolling Stone”, considerata da molti (anche dal sottoscritto) la canzone più importante del Novecento. In quel tavolo – si è scoperto molto presto – in realtà c’era soltanto Bob Dylan, che ha vinto la partita e la mano mandando tutti a casa, bringing them all back home, per riadattare al contesto il titolo di uno dei suoi album più straordinari, uscito anch’esso nel 1965, nello stesso anno di Highway 61 Revisited. Nel ’65 il Nostro, a soli 24 anni, aveva già dato vita a opere immortali. Un anno dopo, mentre affrontava uno dei tour più leggendari della sua vita, pubblicò il primo doppio LP della storia, Blonde on Blonde. Cinquant’anni dopo quel doppio, l’Accademia di Svezia avrebbe ratificato qualcosa che i più acuti avevano capito molti decenni prima.

Grazie, Bob Dylan.

(Samuele Conficoni)